Il tè, utilizzato originariamente come medicina, nel corso del tempo divenne una vera e propria bevanda. Nella Cina dell’VIII secolo si trasformò, inoltre, in un passatempo raffinato, entrando a far parte del regno della poesia, mentre nel Giappone del XV secolo fu elevato a vera religione estetica, il teismo: culto fondato sull’adorazione del bello che si contrappone alle miserie della vita quotidiana. Questa religione estetica ha suscitato purezza e armonia, ispirando il mistero della carità reciproca e il senso romantico dell’ordine sociale.
Il teismo è il culto dell’Imperfetto e, allo stesso tempo, un fragile tentativo di realizzare qualcosa di possibile in quell’impossibile che è la vita. Tale filosofia rappresenta l’autentico spirito della democrazia orientale in quanto trasforma tutti coloro che gli sono devoti in aristocratici del gusto. Il lungo isolamento dal resto del mondo vissuto dal Giappone le ha permesso di svilupparsi, rafforzando la tendenza all’introspezione.
Questo è probabilmente l’unico rituale asiatico a essere universalmente apprezzato e, infatti, nella società occidentale il tè pomeridiano svolge oggi una funzione importante, ormai pienamente affermata.
Il fascino di questa bevanda è assai sottile, il suo gusto lo rende irresistibile e ne favorisce l’idealizzazione, non ha l’arroganza del vino, né la presunzione del caffè e neppure l’innocenza del cacao.
Il teismo non è altro che l’arte di celare la bellezza affinché la si possa scoprire, la libertà di accennare quello che non si osa rivelare apertamente, è il nobile segreto di saper ridere di se stessi, in modo pacato, ma senza reticenze. È il sorriso della filosofia.
La contemplazione dell’Imperfetto può forse avvicinare due universi così diversi, l’Oriente e l’Occidente, permettendo loro di incontrarsi e consolarsi a vicenda. I taoisti infatti narrano che nel grande principio del Non Principio, Spirito e Materia si affrontarono in una lotta mortale. Lo scontro vide trionfare l’Imperatore Giallo, il figlio del Cielo, su Shuhyung, il demone dell’oscurità e della terra, il quale, ormai in punto di morte, urtò con la testa il cielo, frantumando la celeste volta di giada. La rottura causò gravi conseguenze e infatti la luna vagò, senza meta, nella notte, mentre le stelle persero i loro nidi. L’Imperatore Giallo, disperato per l’accaduto, cercò ovunque qualcuno che fosse in grado di riparare i cieli. La sua ricerca lo condusse al mare d’Oriente, dal quale emerse una regina, la divina Niuka, che aveva il capo munito di corna e la coda di drago, avvolta nella sua splendente armatura di fuoco. La regina, nella sua fucina magica, riuscì a ricostruire il cielo della Cina e saldò l’arcobaleno dai cinque colori. La leggenda narra, però, che si dimenticò di saldare due sottili crepe nel firmamento e questa dimenticanza creò il dualismo dell’amore: due anime si muovono nello spazio senza fermarsi mai, fino a quando non si uniscono per rendere compiuto l’Universo. Ogni volta ciascuno deve ricostruire il proprio cielo di speranza e pace.
Questo non è altro che il riflesso dell’umanità moderna che vede il suo cielo frantumato dalla continua lotta per la ricchezza e il potere, dove primeggiano egoismo e volgarità, in cui “l’uomo senza tè” è colui che appare insensibile agli aspetti tragicomici del dramma individuale, mentre l’esteta noncurante della tragedia terrena che si abbandona alle libere emozioni viene definito “troppo tè”.
L’infuso è soprattutto un’opera d’arte e solo la mano di un maestro può manifestarne le qualità più nobili. Non esiste una ricetta specifica per preparare il tè ideale, ogni preparato di foglie ha una propria individualità e particolare affinità con l’acqua e il calore, racchiudendo in sé un patrimonio ereditario di ricordi da rievocare, un vero e proprio modo personale di narrare una storia.
Il tè, così come l’arte, appunto, ha le sue epoche e le sue scuole. Un’evoluzione, nello specifico, che può essere suddivisa in tre fasi principali: quella del tè bollito, quella del tè sbattuto e quella del tè infuso. Attraverso questi differenti modi di gustarlo, è possibile cogliere lo spirito dell’epoca nella quale essi si svilupparono.
Le dinastie più importanti della sua storia furono due: quella T’ang e quella Sung. Con i primi la calda bevanda raggiunse la sua “idealizzazione definitiva”. Lu Wu, poeta, fu il primo apostolo del tè e colse nell’usanza di servirlo la stessa armonia e lo stesso ordine che regnavano in tutte le cose. La sua opera celebre fu il Ch’aching (Il libro del tè) nel quale creò il Codice del tè. Un codice che, da quel momento, fu venerato come nume tutelare dei mercanti cinesi. Il testo si compone di tre volumi e dieci capitoli. Nel primo l’autore narra della natura e della pianta del tè, proseguendo nel secondo con il racconto degli utensili necessari per raccoglierne le foglie e nel successivo con la spiegazione di come queste ultime vengono selezionate. Il quarto capitolo descrive, invece, i 24 pezzi dell’attrezzatura per l’infuso, mentre le restanti sezioni trattano dei modi di prendere il tè, della storia dei suoi più illustri bevitori, delle famose piantagioni della Cina, delle varianti per servirlo e i relativi utensili.
Durante la dinastia Sung, invece, la moda più diffusa fu quella del tè sbattuto che diede origine alla seconda scuola. Le foglie, macinate in un piccolo mortaio di pietra e ridotte in polvere finissima, davano vita a un preparato che veniva poi agitato in acqua calda attraverso l’utilizzo di un frullino di bambù sezionato. Ma non era soltanto l’ideale del tè a rendere differenti le due dinastie, erano altrettanto lontane, infatti, anche le rispettive concezioni di vita. I Sung cercavano di tradurre in realtà ciò che i loro predecessori avevano rappresentato con simboli. Il tè smise di essere un passatempo poetico e cambiò quello che era il significato dell’arte della vita, diventando un mezzo per realizzare se stessi.
Wang Yü-ch’eng disse che il tè inondava la sua anima come un appello diretto, e il cui delicato gusto amaro è come il ricordo di un saggio consiglio. Su Tung-p’o lo descrisse, invece, come una forza della purezza immacolata che sfida la corruzione al pari di un uomo autenticamente virtuoso. I monaci, a loro volta, riuniti davanti all’immagine di Bodhidharma e, con la solennità riservata ai sacramenti, lo bevevano da un’unica tazza.
Se per i cinesi dei giorni nostri la tazza di tè ha perso la poesia rituale T’ang o Sung – per via delle numerose sventure che hanno devastato il paese e che hanno cancellato il gusto di ricercare il significato della vita – i nipponici del XV secolo con questo rituale zen diedero vita a una vera cerimonia.
Il Giappone, infatti, ha ricalcato le orme lasciate dalla civiltà cinese e ha conosciuto questa bevanda in ciascuna delle sue fasi. Proprio nel XV secolo, dunque, sotto il patronato dello sh?gun Ashikaga Yoshimasa, la cerimonia del tè divenne un’usanza secolare. Da quel momento in poi il teismo si è profondamente radicato e, in questo importantissimo rituale, il movimento Sung continua a evolversi elevando la bevanda a una religione dell’arte del vivere. Questo momento si è trasformato nel pretesto per praticare il culto della purezza e della raffinatezza, diventando una funzione sacra che vede l’ospite e l’invitato pronti a vivere un momento di unione e di massima beatitudine terrena.
La cerimonia racchiudeva in sé una rappresentazione, assolutamente improvvisata, dove la trama si intesseva intorno al tè, ai fiori e ai dipinti, mentre i partecipanti dovevano compiere tutti i loro movimenti in modo semplice e naturale per non compromettere l’armonia del momento. Questi sono gli scopi della cerimonia del tè, una cerimonia che celava e cela una sottile filosofia: Nel desolato deserto dell’esistenza, la stanza da tè era un’oasi in cui i viaggiatori affaticati potevano incontrarsi per abbeverarsi alla comune sorgente del piacere estetico. – Kakuzo Okakura, Lo zen e la cerimonia del tè.
Bellissimo articolo, complimenti, è sempre bello “leggerti”!
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