Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro.
Eduardo De Filippo
Non ricordo chi ha detto che il teatro si può fare dappertutto, perfino in un teatro. Secondo me il senso di questa frase è che il teatro è fatto di persone, di esseri umani, è fatto di “noi”: siamo noi che facciamo il teatro. Ed è questo che lo rende speciale e immortale. Finché ci sarà un “noi” che ha voglia di raccontare e raccontarsi e un “noi” che ha voglia di ascoltare e ascoltarsi, ci sarà teatro.
Quando questo articolo verrà pubblicato i teatri avranno cominciato a riaprire, poco a poco. E sono comunque convinto che non avrebbero dovuto chiudere. Perché i teatri non sono la stanza dei giochi dei bambini o la sala hobby, o l’oratorio. Sono luoghi di lavoro. Ognuno ci metta dentro la sua poesia, la sua estetica. Ma, prima di tutto, li consideri luoghi di lavoro altrimenti, con la scusa della creatività, vengono tolti diritti e sicurezza. E così è stato. Per tenere aperti i teatri ci vuole il Ministro del Lavoro, non quello della Cultura. Sarebbe come dire che del Ponte Morandi se ne deve occupare l’ACI perché ci passano le automobili, e invece no. È competenza del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Per i teatri ci vogliono la ASL e l’ispettorato del lavoro per controllare che siano in sicurezza. E, invece, li hanno chiusi con tutti i loro problemi dentro. Un grande tappeto sopra una montagna di polvere. E adesso sarà faticosissimo riaprirli con i problemi irrisolti che si sono accumulati.
Vogliamo parlare dello stato di salute dello spettacolo italiano? C’è poco da dichiarare: è comatoso. Ma non morirà per il Covid, semmai con il Covid, viste le sue pregresse patologie. All’indomani della chiusura delle sale (di teatro, cinema, musica…) a causa della pandemia, il Ministro del MiBACT Dario Franceschini ha provato a smorzare la rabbia dei lavoratori del settore, dal maestro Riccardo Muti («L’impoverimento della mente e dello spirito è pericoloso e nuoce anche alla salute del corpo») alle registe Emma Dante («I teatri sono luoghi di necessità») e Andrée Ruth Shammah («Questa chiusura è una ferita alla nostra dignità, alla nostra missione. Il teatro è stato tolto al pubblico, ancor prima che agli artisti»).
«Ho ricevuto molti appelli e attacchi. Sono franco: penso non si sia percepita la gravità della crisi», ha ribattuto il Ministro, invocando un utopico aiuto da parte delle reti televisive «affinché acquistino e trasmettano spettacoli e programmi di cultura… Non dobbiamo spegnere la domanda… La cultura deve continuare a raggiungere più persone possibili». L’equilibrio tra salute pubblica e cultura (pubblica) è delicato: in Germania, ad esempio, un grande regista come Thomas Ostermeier, alla guida del più importante Stabile di Berlino, è favorevole alla chiusura dei teatri, a fronte – va detto – di un welfare fortissimo, lavoratori dello spettacolo compresi. In Italia, i sussidi sono sempre stati pochi – anche considerando che nessun teatro vive di solo sbigliettamento, anzi – e così pochi sono ora i fondi statali e i bonus previdenziali.
Nello stesso periodo dell’anno scorso, dal 26 ottobre al 24 novembre, il cinema incassava quasi 60 milioni di euro e attirava 9 milioni di spettatori, ora sono tutti bruciati. Lo spettacolo dal vivo, invece, conta di perdere 64 milioni e, a fine anno, le perdite saranno del 77%, ovvero 590 milioni di euro (dati AGIS). Il pubblico degli eventi dal vivo è calato del 60%: 52 milioni di spettatori in meno nel 2020 e 2.6 in questa serrata. Sempre secondo l’AGIS, la platea dei lavoratori dello spettacolo è di circa 140mila persone; l’ISTAT certifica un incremento dal biennio 2011-2012 (135mila) al 2017-2018 (142mila), con una retribuzione mediana annua di 4328 euro per i dipendenti e 194 giorni di lavoro, benché il 77% della categoria non arrivi a 90 giornate. La platea, tuttavia, è vastissima: se si considerano, come fa l’INPS, tutti i lavoratori con almeno una giornata pagata all’anno (2019) si arriva a 330mila persone, con una retribuzione media di 10664 euro.
Dei 140mila lavoratori “ufficiali”, oltre 40mila (un modesto 28.5%) hanno ricevuto il bonus INPS. Il requisito era avere almeno 30 giorni contributivi nel 2019 e reddito non superiore a 50mila euro. La prima indennità di 600 euro mensili, prevista dal Decreto Cura Italia, è stata versata a 32173 lavoratori a marzo; la seconda, sempre di 600 euro, prorogata per aprile e maggio, ha riguardato 32231 persone, per un importo complessivo erogato dall’INPS in tre mesi di 53 milioni 430600 euro. L’ultima tranche di beneficiari, con requisiti più accessibili: 7 giornate lavorate e reddito non superiore a 35mila euro, è stata di 8022 (9 milioni 619mila euro dall’INPS in due mesi). Sollecitato sui tempi dei pagamenti, non sempre puntuali, l’INPS ha precisato che tutti gli oltre 40mila lavoratori dovranno ricevere l’indennità onnicomprensiva di mille euro prevista dal Decreto Agosto, che è prossima alla sua attuazione e verrà erogata in tempi brevi… A questi numeri andrebbero aggiunti i lavoratori dello spettacolo che hanno fatto domanda come intermittenti e che non sono rilevati “autonomamente’”, ma hanno ricevuto comunque il bonus di 600 euro per i mesi di marzo, aprile e maggio. Non è possibile al momento estrapolare il dato puntuale di questo “sottoinsieme”.
Il sito del MiBACT (alla pagina beniculturali.it/covid-19) offre quasi in tempo reale tutti gli interventi e finanziamenti del Ministero, dall’estensione dell’Art Bonus ai fondi di emergenza: escludendo i finanziamenti erogati al settore turismo, a mostre, musei e beni culturali, ai grandi eventi e all’editoria, lo spettacolo (musica, teatri, cinema, circhi, danza) ha beneficiato finora di 330 milioni di euro, spalmati nelle tre manovre approvate da febbraio a oggi (il Cura Italia, il Decreto Rilancio e il Decreto Agosto) e al netto delle riconferme dei fondi FUS, delle esenzioni IMU, delle decontribuzioni, dei voucher «c’è stato uno sforzo importante da parte del MiBACT, sia per il FUS sia per i soggetti extra-FUS. Ma le risorse sono insufficienti», commenta Domenico Barbuto, direttore generale dell’AGIS. «Questo stop and go, poi, non aiuta: lo spettacolo, soprattutto se dal vivo, ha una esigenza di programmazione seria. Non si può calendarizzare e imbastire una recita dall’oggi al domani. Noi, dati alla mano (su 347262 spettatori monitorati dal 15 giugno a inizio ottobre si è registrato un solo caso di contagio da Covid-19), abbiamo dimostrato che i teatri sono luoghi sicuri. Avremmo accettato una chiusura solo con un lockdown totale, insieme a tutti gli altri, senza essere così discriminati».
Teatri chiusi troppo a lungo. Senza spettacoli dal vivo, senza contatto con il pubblico, senza compagnie, senza applausi, senza lavoro: a che punto sono oggi? Qual è lo stato d’animo degli attori, dei registi, dei direttori, dei tecnici? E, soprattutto, quali sono le prospettive future e le possibili soluzioni per tornare a far vivere questi luoghi di cultura e storia? Durante il tempo lungo di chiusura forzata, i teatri hanno dato vita a tante forme di resistenza. Sono molti gli attori, i registi, i tecnici, sia professionisti che amatoriali, che tra lo sconforto (spesso lamentoso) e il fare, hanno scelto di rimboccarsi le maniche, attingendo alla creatività propria del loro lavoro o della loro passione.
Daniele Russo insieme ai fratelli Gabriele e Roberta dirige il Bellini di Napoli, dove è nato l’esperimento “zona rossa” e i 76 giorni di reclusione in teatro: sei attori hanno trascorso 76 giorni di reclusione all’interno del Bellini, senza mai uscire. Durante questo tempo si è fatto teatro, ci si è interrogati sul senso di questo lavoro, sulla sua necessità, sulle ragioni della crisi dello spettacolo dal vivo, esasperata dalla pandemia, e si è mostrato in streaming non uno spettacolo compiuto, ma le fasi creative che portano alla sua realizzazione. Tutto questo in attesa dell’annuncio della riapertura dei teatri per debuttare davanti a un pubblico. La data di chiusura del progetto è stata il 5 marzo. Un anno esatto da quando il Bellini ha chiuso. Le Muse di Ancona sono una fabbrica, un cantiere sempre aperto, perché dietro le porte chiuse al pubblico si continua a lavorare. Anzi sono riusciti a diversificare l’attività: attualmente il teatro ospita diverse compagnie in prova, anche contemporaneamente. A Milano si è dato vita al “teatro delivery”. Barabao Teatro a Padova ha creato un eccezionale esperimento di “teatro d’animazione”, emozionante e di grande qualità.
Il protrarsi della pandemia ha messo il settore in ginocchio e a oggi nessuno è in grado di dire con esattezza quante e quali siano realmente le perdite subite. Nella Grecia classica la tragedia veniva concepita come un rituale collettivo. L’essere umano portato in scena svelava se stesso, ne venivano rappresentati natura, vizi e virtù. Trasformando così la rappresentazione in un’opportunità “educativa”, poiché, posto di fronte a uno specchio, l’individuo aveva la possibilità di conoscersi ed evolvere. Per questa ragione era considerato sacro e fondamentale per la formazione e la crescita del cittadino della Polis, oggi invece sembra quasi un surplus. L’involuzione della nostra cultura è dimostrata dal fatto che lo si possa ritenere qualcosa di cui sia giusto e possibile fare a meno.
È realmente possibile fare a meno di magia e fantasia? Rinunciare alla possibilità delle emozioni forti che regala un’esperienza simile? Il teatro è libertà, rappresenta la possibilità di dar vita a un’opera o raccontare una storia qualunque in qualsiasi modo, comunque si voglia. L’odore del legno del palcoscenico, il brusio in platea, i rumori dietro le quinte, le luci che si spengono in sala, l’emozione all’apertura del sipario e finalmente la magia della rappresentazione. Trasportato in un’altra dimensione, il pubblico in platea si emoziona, vive e sogna in un’atmosfera unica. L’arte, vero nutrimento dell’anima, arricchisce lo spirito, lo eleva e lo alleggerisce.
Il teatro, come la musica, è una forma d’arte che ha la caratteristica dell’unicità del momento. Il tempo della rappresentazione è magico perché l’attore e lo spettatore condividono un viaggio irripetibile e fantastico, tutto si svolge nel qui e ora. Ha la caratteristica dell’onestà, non propone la perfezione “ruffiana” del cinema, piuttosto è un “buona la prima”, immediato e diretto arriva nel bene e nel male allo spettatore rendendolo partecipe. Nessun filtro al servizio della rappresentazione, solo arte nuda ed emozione. Chi ha avuto la fortuna di vedere recitare attori del calibro di Eduardo De Filippo, Ernesto Calindri, Anna Magnani, Tino Buazzelli o il più contemporaneo Toni Servillo non può che essere d’accordo. Rinunciare a questo è perdere l’opportunità di espandere la propria visione.
Perché è importante che i teatri siano aperti? Perché confinati a casa dal lockdown, abbiamo fatto esperienza di come diventiamo sempre più soggetti passivi di fronte a immagini che scorrono su schermi perdendo la possibilità dell’intensità e dell’immedesimazione. Nessuna attivazione dei nostri neuroni a specchio, rimane solo una visione passiva e distaccata. Appiattiti in questa dimensione, perdiamo l’opportunità di un’esperienza tridimensionale e totalizzante, che andando avanti così finirebbe per estinguersi. E questo è un danno incommensurabile per l’umanità intera.
L’idea, lanciata da Gabriele Vacis e sostenuta da Eugenio Barba e altri, è tenere i teatri aperti tutto il giorno, e venerdì e sabato, anche la notte. Aprirli veramente. Finora, i teatri erano chiusi per la maggior parte del tempo, si aprivano al pubblico soltanto per le due o tre ore dello spettacolo. Vanno tenuti aperti sempre. Gli spettatori devono poter entrare a ogni ora del giorno. Naturalmente non si potrà entrare in più di cento o duecento per volta. Ma l’estensione del tempo d’apertura permetterà d’incrementare le presenze. Gli spettatori troveranno la platea sgombra. Le poltrone vanno tolte, perché all’inizio, nel Settecento, le poltrone non c’erano. Si torna alle origini. Così sarà possibile rispettare la distanza tra le persone. E cosa accadrà nei teatri?
Chi fa teatro sente ripetere da sempre che le prove sono molto più appassionanti dello spettacolo. I maestri del Novecento hanno insegnato che quello che c’è dietro alla rappresentazione è prezioso quanto lo spettacolo stesso. Può essere l’occasione buona per fare il salto, per realizzare il sogno del Living Theatre e di Grotowski, di Copeau e Paolo Grassi che volevano il teatro come servizio sociale, come la metropolitana e l’acqua potabile. Bisogna provare a portare in scena tutto: le prove, le letture dei testi, l’allenamento degli attori, l’allestimento delle luci e dei suoni. Nel lavoro quotidiano di una qualsiasi compagnia teatrale, nel training, nelle lezioni dei registi, c’è tensione, c’è cultura, c’è scoperta comune, c’è tanta bellezza. Non deve più essere riservata solo agli addetti ai lavori. Il teatro, più che creazione di forme, è creazione di relazioni tra le persone. La proposta è prendere tutto il coraggio accumulato in questo isolamento per portare in scena quello che c’è dietro allo spettacolo, tutti i giorni, per tutto il giorno. E anche certe notti.
Questa rivoluzione richiede una grande collaborazione tra gli artisti, i tecnici, gli organizzatori; bisognerà ridefinire i propri ruoli, ampliando le competenze all’arte, alla pedagogia, alla cura della persona. Servirà meno marketing e più complicità tra artisti e spettatori. Gli attori dovranno rinunciare a un po’ di vanità in favore della comprensione. Gli organizzatori dovranno rinunciare a un po’ della loro sufficienza efficientistica in favore della solidarietà. L’obiettivo sarà la partecipazione comune alla creazione dell’evento teatro. L’arte, la bellezza, il teatro sono rimasti per troppo tempo prigionieri della forma. Vanno liberati nell’inclusione, nell’interazione tra le persone.
Mettere in scena tutto quello che c’è dietro e oltre lo spettacolo significa ridefinire il rapporto tra lo spettacolo e il teatro, tra la forma e la relazione tra le persone. Il teatro nasce come pratica di guarigione: quello di Epidauro era un reparto dell’ospedale più grande dell’antichità. Il teatro ha, dalle origini, a che fare con la cura della persona. Per questo, bisogna provare a renderlo accessibile a chi non ci ha mai messo piede. E sono tanti.
Perché non fare scuola nei teatri? Naturalmente per far vedere Goldoni e Shakespeare, per far capire come funzionano Goldoni e Shakespeare. Perché non far vedere come un grande regista e una grande attrice costruiscono un personaggio o interpretano un testo, uno di fronte all’altro come Marina Abramovic in The artist is present? Ma va fatto vedere nel momento in cui nasce. Il teatro è forma nascente. La forma cristallizzata va lasciata a Netflix, che sa cristallizzarla molto meglio. Questa non è la soluzione definitiva. Quando si potrà tornare a riempire i teatri si rimetteranno in scena i grandi spettacoli di tradizione che sono un patrimonio inestimabile. Ma, nel frattempo, si sarà accumulata l’esperienza oltre lo spettacolo, che avrà insegnato a usare in modo nuovo e meraviglioso i teatri.
Il teatro nasce dal rito, dal gioco, dalla narrazione: rito, gioco e narrazione vanno riportati a teatro. Per ricominciare è necessario riflettere, ripensare totalmente a un teatro nuovo. A partire dal rapporto con il pubblico. Il teatro deve parlare a tutti. Alla cittadinanza. Deve diventare la casa di tutti e un punto di riferimento. Se così non succederà, anche questo ultimo, recente, tempo di chiusura non sarà servito a nulla. Chi si occupa di teatro ha, in questo momento, un compito preciso: parlare a chi si sente più lontano da questo mondo. Avvicinare giovani, cittadini. C’è bisogno di un teatro di grande senso, che sia per chiunque. Perché il teatro deve rappresentare la piazza, ma ha compiuto un grosso sbaglio: si è chiuso a riccio e ha continuato a parlare soltanto a pochi. Chi lo ama davvero deve continuare a interrogarsi, a riflettere, a mirare al cambiamento. Cambiare tutto. Solo così ha veramente un senso aprire.
Contributo a cura di Ernesto Aufiero