Da circa una settimana il taser è diventato parte della dotazione ordinaria delle forze dell’ordine di sei città italiane, che diventeranno diciotto entro la fine di maggio. Si tratta della pistola a impulsi elettrici in grado di immobilizzare chi viene colpito, permettendo così agli operatori della Polizia di Stato, della Guardia di Finanza e dei Carabinieri impegnati nelle attività di prevenzione e controllo del territorio di gestire in modo più efficace e sicuro le situazioni critiche e di pericolo. Almeno queste sono le intenzioni espresse dal governo, e in particolare dal Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che ha parlato di un passo importante per ridurre i rischi per l’incolumità del personale.
Sono molte, tuttavia, le perplessità rispetto sia alla possibilità di gestire il territorio in questo modo sia alla mancanza di pericolosità di un tale strumento. È davvero necessario dotare le forze dell’ordine di un’ulteriore arma che, come sottolineato anche dall’Associazione Antigone, viene spesso utilizzata in sostituzione dei manganelli e non delle armi da fuoco, rischiando di avere effetti disastrosi?
L’associazione non è l’unica a manifestare dubbi rispetto all’utilizzo del taser poiché numerosi sono i pericoli a esso collegati e denunciati da organismi che si occupano di diritti umani sulla base di precisi studi: un’inchiesta di Reuters, ad esempio, ha dimostrato come in vent’anni più di mille persone siano morte nei soli Stati Uniti a seguito del suo utilizzo, che inoltre è risultato efficace, secondo una ricerca condotta da Apm Reports, solo nel 60% delle volte. In merito alla sperimentazione in Italia, accompagnata da una formazione del personale che l’avrà in dotazione, invece, essa era stata interrotta nel 2020 proprio in ragione di alcune criticità emerse nel suo uso e che però, a oggi, sembrano essere ormai superate.
Si tratta – come più volte ribadito – di attribuire al personale coinvolto un’ampissima discrezionalità in merito all’utilizzo del taser poiché gli operatori saranno chiamati a valutare innanzitutto se si prospetta una situazione di pericolo per la loro incolumità e a decidere se usufruire dell’arma, eventualmente considerando le condizioni di chi sta loro di fronte. La pistola a impulsi elettrici deve infatti essere utilizzata a una precisa distanza e se il rischio di mortalità è normalmente – per ammissione della stessa azienda produttrice – dello 0.25% (percentuale di per sé già preoccupante), il pericolo è ben maggiore se si tratta di persone con patologie cardiache, neurologiche, epilessia o il cui cuore sia sottoposto a particolari sforzi in quel momento. Condizioni difficilmente valutabili da un agente, per lo più in pochi minuti, che rischiano quindi di dare seguito ad abusi e arbitri inammissibili.
Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e la Corte europea dei diritti dell’uomo sono dello stesso avviso e ne sconsigliano l’utilizzo, in particolare nei confronti di persone disarmate. Bisogna inoltre considerare che, come sottolineato anche dal Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà personale Mauro Palma, molte volte l’utilizzo del taser conduce a un aumento della reazione violenta, anziché a una gestione pacifica del conflitto.
L’inefficacia e la conseguente pericolosità dell’arma si moltiplicano in ambienti ristretti o nei confronti di individui che soffrono un disagio psichico: abbiamo già avuto modo di sposare le considerazioni del Garante nazionale e dell’Associazione Antigone nel sottolineare che se dotare i corpi di polizia del taser è un errore nella società libera, lo è ancor di più in luoghi in cui – date le condizioni di vita – è più probabile una reazione aggressiva, a maggior ragione se si pensa che quasi un terzo dei detenuti vive un disagio psichico o è sottoposto a una terapia farmacologica per la propria salute mentale. Eppure, fomentati da forze politiche populiste, i sindacati di polizia penitenziaria chiedono a gran voce tale strumento per farvi ricorso in quelle che considerano situazioni di insubordinazione, in spregio totale dello stesso articolo 41 della Legge sull’ordinamento penitenziario che vieta agli agenti in servizio negli istituti di pena di portare armi, se non nei casi eccezionali in cui ciò sia ordinato dal direttore per rispondere – si intende – a eventi che non rappresentino l’ordinarietà della vita detentiva.
Ciò che è chiaro è che, per l’ennesima volta, si scelgono modalità repressive – anziché preventive – per la gestione del territorio e che se la sperimentazione del taser aveva avuto avvio in seguito a due decreti dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che non ha mai mancato di manifestare il suo assenso a tali modalità violente di gestione di conflitti, il seguito e l’ordinarietà di tale equipaggiamento arrivano oggi da compagini politiche che solo formalmente percorrono il solco della discontinuità. Le nostre risorse continuano a essere utilizzate per la difesa, le spese militari, le strumentazioni violente, anziché per agire alla base sulle cause stesse che nei territori possono dar vita a situazioni di marginalità e devianza.
Ancora una volta, le preoccupazioni si concentrano esclusivamente sulla protezione assoluta del personale coinvolto, che seppur legittime, rischiano di farci ignorare le conseguenze di tali scelte, in termini sia immediati che sulla lunga distanza. Ricordiamo inoltre che i Comuni potranno autorizzarne l’uso anche per il corpo di polizia municipale, previa formazione, e che se taluni Comuni hanno risposto negativamente a questa possibilità, accogliendo invece l’appello dell’Associazione Antigone, il rischio è di assistere sempre più spesso a conflitti violenti e dalle conseguenze tragiche.
Avevamo davvero bisogno di oltre quattromila taser e altrettanti sceriffi armati per le strade delle nostre città per sentirci sicuri? Forse dovremmo chiederci quanto del millantato pericolo sia reale e quanto, invece, sia strumentale e utile a una certa parte della politica che incentiva lotte tra poveri e marginalità sociali al solo scopo di ottenere consenso e controllo delle comunità.