La Calabria non è mai stata al centro dell’attenzione di stampa e opinione pubblica quanto in queste ultime settimane, purtroppo non per i motivi per i quali ognuno vorrebbe ritrovare la punta dello Stivale italiano sulle copertine dei principali mezzi d’informazione. L’emergenza coronavirus ha rivoltato un tappeto sotto il quale si nascondeva un ammasso di polvere accumulato negli anni da mala politica e ‘ndrangheta, spesso colluse.
Sotto esame, stavolta, è la sanità della Regione guidata (pro-tempore) da Nino Spirlì, già commissariata e alle prese con un debito milionario che ne mina l’efficienza, e non solo per quanto riguarda le misure straordinarie messe in atto in contrasto all’epidemia da COVID-19.
Si è assistito a una vergognosa tarantella che ha visto prima la cacciata da parte del Premier Giuseppe Conte di Saverio Cotticelli («Dovevo fare il piano COVID? Non lo sapevo»), poi le dimissioni del neo-incaricato Giuseppe Zuccatelli a causa delle sue tesi quantomeno controverse sulla malattia («La mascherina non serve. Per prendersi il virus bisogna baciarsi per quindici minuti con la lingua»), fino al no di Eugenio Gaudio, anzi, di sua moglie, che non ha intenzione di trasferirsi a Catanzaro. Il Governo ha, così, chiesto a Gino Strada ed Emergency di collaborare con la Protezione Civile alla gestione degli ospedali da campo e al supporto all’interno dei COVID Hotel e nei punti di triage delle strutture sanitarie: una guerra senza bombe che piovono dal cielo in una terra, quella della Calabria, alle prese con problematiche figlie di atavica incuria.
Abbiamo contattato il giornalista Antonio Talia, esperto di vicende legate alla ‘ndrangheta e autore dell’indagine Statale 106 (minimum fax, 2019), per capire meglio cosa sta realmente accadendo.
Antonio Talia, partirei da una domanda apparentemente banale ma, a mio avviso, centrale: cosa sta succedendo in Calabria?
«Ciò che accade è una stratificazione di situazioni diverse, intersecate tra loro, che emergono ora, in un momento di crisi. L’emergenza COVID ha fatto venir fuori una serie di deficienze che sono lì da sempre, stratificate perché riguardano da un lato la criminalità organizzata, dall’altro la mala gestione politica. E questi due elementi sono purtroppo collegati. In più, ce n’è un terzo, non meno importante, che è l’attitudine dei cittadini e questo, ahimè, è il più difficile da digerire. Esiste chi cerca di trarre profitto dalla situazione attuale e chi non vuole accettare di avere un grosso problema da combattere».
Giovedì mattina è arrivato un altro arresto importante, quello del Presidente del Consiglio della Calabria, Domenico Tallini. Chi è? E perché il suo nome è stato legato alla ‘ndrangheta? Qual era il suo ruolo?
«Ovviamente, ci sono ancora delle indagini in corso, è tutto da chiarire. Tallini è un perito elettrotecnico che ha lavorato per anni all’Enel, è entrato in politica molto giovane, prima nel MSI, poi ha fatto vari passaggi nei partiti di centrodestra, fino a Forza Italia. Ha guadagnato circa 10mila voti ed è riuscito in questa partita in una regione in cui FI ha ancora una sua forza, in controtendenza alle scelte che si adoperano a livello nazionale. Quello di cui è accusato in questa inchiesta è di aver aiutato l’operato della cosca dei Grandi Aracri ad attivare un meccanismo di riciclaggio di denaro sporco attraverso le farmacie, in un intreccio importante con la sanità. Siamo in provincia di Crotone, una cosca molto potente».
In che modo, in Calabria, sanità e ‘ndrangheta sono collegate?
«C’è bisogno di fare un salto indietro nel tempo. La sanità, innanzitutto, è sempre stata un importante bacino di voti, di impieghi pubblici concessi in cambio e, infine, di appalti. Attorno alla sanità calabrese ruotano figure leggendarie, come un personaggio che negli anni ’80 gestiva la USL della Piana di Gioia Tauro. Era detto Ciccio Mazzetta (Francesco Macrì – ndr) e distribuiva posti di lavoro, da quelli di inserviente, infermiere, fino ai medici. Adoperava una logica clientelare, ossia tenendo conto delle raccomandazioni del clan. Questo esempio è qualcosa che si è praticato nell’intera Calabria. La riforma che ha portato la sanità a essere gestita direttamente dalle singole regioni, poi, non ha fatto altro che rinforzare questo processo. Arrivando ai giorni più recenti: abbiamo visto, ci sono stati dei commissariamenti, ma non va dimenticato che l’omicidio Fortugno del 2005 (l’ex vicepresidente del Consiglio Regionale) avvenne per questioni legate proprio alla sanità pubblica. Successivamente, si sono aperte delle voragini di bilancio dovute alla mala gestione, all’appropriazione di fondi, che hanno portato alla situazione attuale. Tradotto: i calabresi si trovano ora con una sanità completamente disastrata. Come raccontava un’inchiesta del Financial Times di qualche tempo fa, il debito della sanità regionale avrebbe potuto essere cartolarizzato e impastato in prodotti finanziari derivati che in questo momento stanno ancora girando sui mercati internazionali».
Per giungere alla più stretta attualità, come hai visto il balletto che ha portato alla chiamata di Gino Strada?
«Purtroppo, la classe politica calabrese ci ha abituato a vette di surrealismo difficilmente raggiungibili altrove. Nessuno vuole fare il commissario alla sanità in Calabria perché nessuno vuole mettersi in una situazione estremamente difficile che significa gestire decine, se non centinaia di milioni di euro di debito. È un qualcosa che farebbe tremare i polsi anche ad amministratori scafati. Questo balletto è stato grottesco, ma chiediamoci perché accade lì e non altrove. Perché la vita pubblica calabrese è talmente inquinata da incroci di amicizie e complicità che è come se si venisse a creare una specie di isolamento totale, per cui le cose che avvengono in Calabria hanno un significato solo per chi abita quella terra, mentre perdono di significato appena si passa il confine».
Questa narrazione, però, sembra suggerire una forte collusione della società civile con la ‘ndrangheta.
«Dire che tutta la gente sia collusa con la ‘ndrangheta è un errore, si saltano dei passaggi. Non è che ogni calabrese abbia idea di cosa succeda dentro le stanze del potere o dentro gli ospedali, né chi comanda e perché. Che ci sia un atteggiamento rinunciatario mi sembra evidente, altrimenti non staremmo parlando della regione con il più alto tasso di pendolarismo sanitario e non solo. La struttura sociale si basa su un atteggiamento di estrema cura verso i fatti propri, poco del senso comune. È un meccanismo arrendevole, di rimozione totale del problema, come a far finta che vada tutto bene. Mi chiedo quale nuovo fondo si debba toccare prima di rendersi conto di avere a che fare con un problema più grande».
Eppure, un leader che ha provato a indicare una nuova via c’è stato, penso a Mimmo Lucano.
«Credo che il popolo calabrese sia conformista, nel senso più negativo del termine. Anche rispetto a quello campano, per fare un confronto tra noi che ne stiamo discutendo».
Per tornare a Gino Strada. Pensi che il suo compito sarà più o meno semplice? Lo Stato sarà in grado di tutelarlo?
«No. Intanto, già il fatto che si debba affiancare allo Stato una ONG che opera in contesti molto complicati, di guerra, è un fallimento. Dopodiché, si prende atto che la situazione è talmente grave da richiedere un intervento di questo genere – e va bene! –, ma è una gestione di crisi. Non si può pensare di passare di emergenza in emergenza. Se ci vuole una figura commissariale, questa deve muoversi nell’ambito di ciò che prevede la legge. Gino Strada è una personalità illustre, ma mi chiedo cosa potrà fare, posto che non avrà poteri commissariali, se non aiutarci a gestire una fase d’urgenza. Per carità, è il benvenuto, ma quando questa storia del COVID sarà finita, quando il vaccino permetterà di tornare a una vita normale, il debito pubblico non sarà sparito, le strutture non saranno migliorate e non sarà stata fatta pulizia a certi livelli. Alla prossima emergenza che faremo? Chiameremo di nuovo Emergency?».
Torniamo un po’ più indietro, alle elezioni di quasi un anno fa, quando i calabresi elessero il duo formato da Jole Santelli e Antonino Spirlì. Innanzitutto, vuoi dire qualcosa sulla Santelli? E su Spirlì?
«Sulla Santelli credo che la tragedia della sua morte improvvisa non debba farci perdere di vista una serie di responsabilità legate alla persona, altrimenti saremmo disonesti, ipocriti. Spirlì dà l’idea di non capire cosa sia la politica vera e pensa che fare il politico voglia dire intervenire con delle sparate da talk-show pur di guadagnarsi un titolo ed ergersi a difensore di chissà quale onore calabrese leso dal resto d’Italia. Spirlì dovrebbe capire che un politico è innanzitutto un amministratore, e mi sembra che di amministrazione se ne stia facendo molto poca».
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Quali sono i prossimi passi per pensare a un riscatto della Calabria?
«Va assolutamente capito come ristrutturare questo debito e dare man forte a quei pochi esempi virtuosi che ci sono, provando a estendere il loro modello anche altrove».
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