A meno di due settimane dal referendum costituzionale e dopo mesi di silenzio sul tema – anche prima del lockdown – il dibattito sul sì o sul no si è piuttosto acceso. Da una parte, c’è chi sostiene che la riforma fosse già paventata da tempo, che meno parlamentari lavorerebbero meglio e che in questo modo si risparmierebbe un miliardo in dieci anni; dall’altra, c’è chi parla di diminuzione della rappresentatività, di partitocrazia e persino di colpo alla democrazia.
Per fare maggiore chiarezza e offrire al lettore l’opportunità di fugare quei dubbi che ancora lo accompagnano nonostante l’approssimarsi del voto, abbiamo scelto di affidare la parola agli esperti, dando voce a chi è a favore del referendum e a chi, invece, si batte affinché la Costituzione resti intatta.
Il primo a rispondere alle nostre domande è il Professore Andrea Pertici, docente ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università di Pisa, che ci ha fornito il suo punto di vista sulle possibili conseguenze della riforma.
Professore, pensa che, diminuendo il numero di rappresentanti in Parlamento, possano mutare in peggio la rappresentatività e la distanza tra eletto e cittadino?
«Certamente il singolo voto peserebbe meno. Tuttavia, la rappresentatività e la distanza elettore/eletto non dipendono solo dai numeri. In Italia, con quasi mille parlamentari, il rapporto tra eletti ed elettori è da anni in gravissima sofferenza. Ciò dipende da molti fattori, tra cui la perdita della loro funzione costituzionale da parte dei partiti, le leggi elettorali che hanno sacrificato la rappresentanza al punto da risultare incostituzionali, lo svilimento di qualunque strumento di democrazia diretta. Per non parlare di comportamenti di parlamentari che hanno contribuito a distruggere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni».
Si porrebbe un problema di deficit di democrazia, qualora vincesse il sì?
«Questo no. Il numero dei parlamentari sarebbe comunque ragionevole, anche avuto riguardo ad altre esperienze, e se la nostra democrazia sta in parte soffrendo ciò dipende dalla scarsa possibilità dei cittadini di partecipare effettivamente alle decisioni pubbliche».
Se davvero l’obiettivo è quello di risparmiare, non sarebbe meglio diminuire le indennità dei parlamentari? Non ci sarebbe neppure bisogno di un referendum…
«L’obiettivo del risparmio è uno di quelli citati nel presentare la riforma. Certamente non è quello dotato di maggiore rilevanza, anche se le risorse pubbliche devono sempre essere maneggiate con grande rispetto e oculatezza. Questo era stato sottolineato anche alla Costituente dall’on. Nobile, proprio rispetto al numero dei parlamentari. La sobrietà del potere è una condizione perché i cittadini abbiano fiducia in esso. Certamente a quest’esigenza risponderebbe una riduzione delle erogazioni – sotto forma di indennità e rimborsi – a favore dei parlamentari. Mi auguro che si possa procedere presto in tal senso».
Qualcuno sostiene che con un Parlamento composto da meno membri ci sarà maggiore speditezza: questo non dipende, come sta accadendo ora, dall’intensa attività del governo e dai numerosi decreti legge?
«Più che la speditezza, da parte del legislatore sarebbe apprezzabile l’efficienza, data da una maggiore capacità di lavoro e da una migliore organizzazione dello stesso. Essa potrebbe restituire alle Camere una maggiore centralità. Com’è stato detto sin dalla Costituente e anche recentemente ribadito, ad esempio dal Prof. Onida, Camere più snelle possono favorire simili obiettivi».
Secondo Lei perché molti di quelli che prima sostenevano il taglio dei parlamentari ora voteranno in maniera contraria?
«Se intende riferirsi al fatto che alcuni parlamentari hanno votato sì in aula e pensano di orientarsi per il no al referendum, effettivamente si tratterebbe di un atteggiamento curioso. Infatti, il voto che hanno a disposizione come parlamentari è certamente più pesante di quello che hanno in mano come cittadini. Ma ciascuno è libero di cambiare idea nel tempo. Certamente sarebbe auspicabile che il sistema elettorale consentisse di far valere la responsabilità delle scelte di chi viene eletto».
È bene che le riforme costituzionali siano quanto più condivise possibili. Ma possiamo considerare questa una riforma condivisa, dopo che è stata votata da due partiti – cioè Lega e PD – solo perché era condizione necessaria per la nascita dei due governi, dunque, senza la consapevolezza che avrebbe dovuto imporre?
«Certamente non ritengo che le scelte sulla Costituzione possano essere piegate a logiche di governo. L’ho scritto molto chiaramente, tra l’altro, in un volumetto dal titolo La Costituzione spezzata, pubblicato nel 2016, quando una riforma costituzionale era stata, appunto, interamente piegata a logiche di governo. Anche per questo credo che gli elettori debbano poi votare in base al contenuto delle riforme e non pensando ai destini di un singolo esecutivo».
Pensa che questo sia l’intervento principale da effettuare sulla Costituzione? Non si sarebbe potuto dare precedenza, ad esempio, a riformare il Titolo V o la composizione del CSM, considerando gli ultimi inquietanti avvenimenti che lo riguardano, magari lasciando solo quote togate?
«Difficile dire cosa sia maggiormente utile. Personalmente, ad esempio, avrei dato precedenza al potenziamento di strumenti di partecipazione, come l’iniziativa legislativa popolare rinforzata. Ma è il Parlamento a dare le priorità. Apprezzo però che vi siano riforme puntuali e condivise».