Ibrahim Manneh aveva ventiquattro anni, come me. Era nato in Costa d’Avorio, ma da qualche tempo viveva in Italia. Parlava cinque lingue ed era impegnato come volontario per tradurre le informazioni ai richiedenti asilo. Voleva costruirsi un futuro, molto probabilmente qui a Napoli. Più o meno come quando io, che di lingue ne parlo quattro, ero partita per Edimburgo, sperando in un qualcosa che avevo la sensazione che la mia terra mi stesse negando.
La mattina dello scorso 9 luglio, il giovane si era recato al Loreto Mare perché sentiva di non stare bene a causa di forti dolori addominali che non lo lasciavano in pace. In ospedale, però, dopo una puntura e nessuna analisi o visita più specifica, gli avevano detto di tornare a casa, nonostante le fitte non stessero diminuendo affatto. Nel corso della giornata, quindi, le sue condizioni di salute erano peggiorate drasticamente, fino a quando, in serata, suo fratello e alcuni amici lo avevano portato alla farmacia di turno, nei pressi di Piazza Garibaldi, dove il farmacista si era rifiutato di aprire, ma aveva accettato le loro richieste di chiamare un’ambulanza. Nemmeno un’ora di attesa lì fuori e le numerose telefonate al 118 erano state sufficienti a convincere chi avrebbe dovuto soccorrerli. Nessuno stava arrivando. Nessuno sarebbe arrivato. Persino dei carabinieri sul posto, incuranti delle sofferenze, avevano intimato loro di allontanarsi. Eppure, che la situazione fosse grave era piuttosto palese.
I ragazzi, allora, poco distante, avevano fermato un taxi – al quale avrebbero regolarmente pagato la corsa di appena dieci euro – il cui conducente, però, si era drasticamente opposto, decidendo di non farli salire in auto e, quindi, di non dare loro alcun aiuto. Non ha l’autorizzazione della polizia, aveva ripetuto l’uomo. Di certo, Ibrahim aveva troppo scuro il colore della pelle, forse non in tinta con i sedili della vettura.
Il gruppo, sempre più allarmato, si era recato, dunque, presso un’altra farmacia in cui, senza alcuna visita o prescrizione medica, avevano venduto loro delle medicine dal costo di quindici euro. Dopo l’assunzione dei farmaci, una volta a casa, Manneh aveva iniziato a rimettere. A esattamente dodici ore dai primi sintomi, anche i ragazzi dell’Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo, contattati perché a Ibrahim prestavano assistenza allo sportello legale, avevano iniziato a chiamare soccorsi, ma per un ragazzo che vomita di certo non era sembrato il caso di scomodare nessuno. Al centralino, infatti, si erano limitati a fornire il recapito della Guardia Medica di Piazza Nazionale. Il ventiquattrenne, intanto, aveva perso conoscenza.
Con preoccupazione e fretta, quelle di chi sa che deve combattere contro il tempo, gli amici e il fratello avevano caricato il giovane sulle loro spalle per correre dal dottore. Durante il tragitto, avevano intercettato un’altra volante dei carabinieri: anche questa volta, nessuno li aveva ascoltati, proseguendo la marcia. Giunti a destinazione, qualcuno aveva assistito il giovane e, prontamente, chiamato i soccorsi: la situazione si era fatta ancora più seria. Finalmente, era arrivata un’ambulanza. Alle 2:30 del mattino del 10 luglio, Ibrahim era ritornato in ospedale per essere portato d’urgenza in sala operatoria. Da quel momento, le sue tracce sarebbero andate perse.
Il ragazzo ivoriano era morto per una perforazione all’addome che aveva causato peritonite. Quella notte non c’era stato bisogno nemmeno di operarlo. A chi lo aveva accompagnato nuovamente al Loreto Mare, pregando in una sala d’attesa, però, nessuno aveva ritenuto necessario dire nulla fino alle 21:30 della sera successiva. Di tutte quelle ore sarebbero rimaste soltanto l’ansia, la paura, le luci bianche, un silenzio assordante e una verità da scoprire.
Alle 22:30, intanto, familiari, amici e militanti dell’Ex OPG avevano deciso di denunciare una situazione assurda e vergognosa. Ostacolati a più riprese, intimoriti anche dalle forze dell’ordine, in un ping-pong tra il drappello giudiziario dell’ospedale e la questura, finalmente erano riusciti a depositare la denuncia. Le risposte alle numerose domande, però, tutt’oggi non sono ancora arrivate. Cosa ha ucciso Ibrahim? Il razzismo? La negligenza? L’inefficienza? La malasanità? Qualcuno pagherà mai?
A tal proposito, a distanza di diciassette giorni, per il prossimo 27 luglio in via Matteo Renato Imbriani 218, l’associazione ‘Je so Pazzo, che ha assistito Manneh fino al suo ultimo respiro, ha organizzato una serata benefit dal nome Suoni e parole per Ibrahim, il cui ricavato servirà per coprire le spese processuali (l’acquisizione di filmati e materiali, periti, incartamenti, ecc.), ed eventuali altre spese per la famiglia del ragazzo. L’inizio dell’evento è fissato alle ore 20:00 con una cena di solidarietà. Alle 21:00 seguirà, poi, una jamm session – a chi volesse registrarsi è richiesto di anticiparsi alle 19 – e la possibilità del palco aperto a chiunque desideri portare il proprio contributo alla causa. Infine, avrà luogo il concerto di ‘E Zezi e di Epo. Alla campagna di sostegno, comunque, è possibile partecipare anche tramite bonifico bancario. Per tutte le informazioni, consultare il sito www.jesopazzo.org.
Questa serata è un momento per ricordare, ma anche per dare una risposta netta: in questa battaglia siamo tutti coinvolti e tutti dobbiamo dare un contributo per portarla avanti, per Ibrahim e perché quello che è accaduto non si ripeta. Ringraziamo gli artisti, i tecnici e tutti coloro che si sono resi disponibili a titolo gratuito, a chi finora si è speso e chi si spenderà per questa campagna: chiediamo con forza che la storia di Ibra non venga dimenticata, che le istituzioni preposte si preoccupino di fare emergere la dinamica in cui Ibrahim se n’è andato, le responsabilità, le mancanze. Non è un paese civile quello che accetta che razzismo e malasanità possano mietere vittime impunemente.
Anche io, in Scozia, non sono stata bene. Ho avuto bisogno di un medico e di assistenza, sono andata in ospedale. Ma nessuno mi ha rifiutata, nessuno mi ha detto di no. Alla mia richiesta di aiuto, ho ricevuto un sorriso e tante attenzioni, un camice pulito e una stanza tutta per me. Non ho avuto un forte dolore addominale e non ho avuto una peritonite, certo, ma ho scoperto un sistema medico rapido ed efficiente. Lungo il tragitto, nessuno mi ha chiesto l’autorizzazione della polizia. E non sono convinta che a ciò abbia contribuito la mia pelle chiara.
Il diritto alla salute, in questo paese, è sempre più un miraggio per una fascia di popolazione in costante aumento, quella più povera e bisognosa che non riesce a permettersi cure adeguate. Ibrahim, senza ombra di dubbio alcuno, è stato vittima di malasanità ma anche e soprattutto del razzismo più subdolo e invisibile di questa società, quello che si esercita tra le file della burocrazia e degli uffici pubblici. Perché era nero, povero, senza qualcuno che potesse garantire, intercedere, per lui. Ibrahim rischia ancora, da morto, di essere nuovamente vittima di un’ingiustizia, del tentativo di insabbiare la verità.
Per questo non possiamo più tacere, per questo dobbiamo attivarci. Perché in Italia – che il nostro nome sia Ibrahim o Ciro – ci hanno uccisi tutti, senza pietà. E lo rifarebbero ancora.