Nell’introduzione al libro Sulla rotta di Enea di Bruno Agolini e Maria Teresa Moccia Di Fraia, l’autrice asserisce che Enea e le sue imperfette esitazioni diventano metafora dell’oggi, dell’uomo provato dal suo presente, che deve costruirsi giorno per giorno, cambiando anche pelle e destinazione. Sottolineo “cambiare pelle”, mutare l’involucro, la scorza, nonché la destinazione-destino.
Le possibilità e necessità della trasformazione come categoria antropologica sono state osservate da Sergio Piro. L’uomo contemporaneo è immerso nella società liquida da un lato e, dall’altro, ingessato dall’intelligenza artificiale per cui è agito e, agitato dal senso di rigatteria della propria memoria, cerca una masulliana paticità, indizi e segnali per una sostituzione di senso.
“Senso” significa “direzione”, direzione implica un cammino dotandosi degli strumenti adeguati per affrontarlo. Il messaggio è identico a quello di celeberrimi versi di Giorgio Caproni (Il passaggio di Enea), nati in una casa cantoniera mentre si osservano sulla parete le luci di automobili in corsa. Per questo testo la marinara Genova ha innalzato un monumento dedicato a Enea e a Caproni.
Per discutere del tandem Di Fraia-Agolini, e sulla base di quanto asserito dall’autrice, utilizziamo come presupposto un codice: ogni forma espressiva, inclusa la scienza, nasce da una dissonanza cognitiva. Il primo a trovare, mediante la creatività, una soluzione al proprio disagio è l’autore che, a sua volta, chiama in causa i suoi alias per avere conferme; si sottopone, cioè, come adesso, al rituale del giudizio e della condivisione, si “espone”. Ma cos’è la dissonanza cognitiva?
È un fenomeno che viviamo tutti i giorni. Faccio un esempio: camminate per Napoli. Vi si avvicina un signore che vi propone di acquistare orologi. Voi di orologi ne capite e notate che quelli proposti sono autentici e a basso prezzo. Che fate? Se comprate, una vocina vi dirà che non si acquista roba illegale; se non comprate, rimarrete delusi per un affare non fatto. Ecco: siete in dissonanza, in stallo, non sapete che fare. Guardate poi con più attenzione il vostro interlocutore e pensate che, molto probabilmente, è un papà che deve portare il pane a casa. Che fate? Comprate tre orologi. Cos’è successo? Che avete riposizionato i dati della vostra esperienza, le loro relazioni, li avete rimodulati elaborando un senso nuovo e liberatorio che, a sua volta, genera comportamenti inaspettati, un invito all’azione.
Maria Teresa Moccia Di Fraia è, come tutti sappiamo, una studiosa di lettere classiche e di archeologia. Il viaggio di Enea, dunque, le è perfettamente noto e sarebbe stato ridondante proporlo se non fosse intervenuto nell’autrice un bisogno di chiarezza in virtù di una dissonanza dichiarata (pag. 15): per quanto abbia studiato e insegnato l’Eneide, avvertivo una sottile resistenza: la sentivo distante, incardinata in una visione politica di propaganda […] ho maturato a poco a poco l’idea di un progetto editoriale nuovo, che ha preso corpo e misura.
C’era, dunque, nell’autrice, il bisogno di ripercorrere il viaggio di Enea intimamente, vale a dire di riviverlo nei suoi allegati simbolici e psichici, metatemporali, riprogettarne il senso, scendere nella nekyia personale, intercettare le icone sepolte nella propria mente. E qual è, per Moccia, Chatwin o un pellegrino sulla via francigena, il senso del viaggio se non quello di Itaca di Kavafis? L’importante è il viaggio, non la meta, e bisogna vigilare su ciò che il viaggio evoca.
Il poeta alessandrino è chiaro: non devi temere Lestrigoni o Ciclopi o Nettuno imbizzarrito se non li desta contro te il tuo cuore. Non a caso Ceronetti, nella sua magistrale traduzione di Kavafis, usa una parola che nel testo neogreco non c’è: Psiche. E Psiche è alata, ti porta dove non sospetteresti mai di giungere; è, insieme con i Lestrigoni e i Ciclopi, un pericolo.
Desidero sottoporre alla vostra attenzione e valutazione un altro dato, strettamene connesso con Psiche. Maria Teresa Moccia Di Fraia ha scritto i suoi versi adottando uno stile molto conciso, diciamo pure lapidario, sullo stile degli haiku, che richiedono una disciplina notevole. Se, tuttavia, posizioniamo i versi nel contesto e nella scenografia flegrei e pensiamo al momento più intenso del viaggio di Enea, il VI libro, ci viene incontro una domanda: come venivano detti e trascritti gli oracoli sibillini se non in forma concisa e lapidaria? Siamo pertanto autorizzati a immaginare che, per il gioco delle maschere che governa ciascuno, Moccia Di Fraia – non sappiamo quanto consapevolmente – indossa la “persona” (maschera) della Sibilla, dice una profezia o scrive un cartiglio a ogni tappa del viaggio, diventa il suggeritore, l’ombra di Enea, e sappiamo che in termini analitici l’ombra è un principio d’individuazione. L’Ombra è l’Ade; A(i)de, etimologicamente, è il non-visibile. “Ade” ha radice “id”, da cui “vedere”. Ed è la poesia che ci fa vedere la strada nel buio con il suo dicare-indicare-dire.
I versi di Moccia obbediscono all’ambiguità oracolare e a quella ermeneutica che fonda la poesia, vale a dire che offrono scelte multiple e simultanee, costituiscono un percorso reticolare, un tramaglio in cui ogni nodo si collega agli altri. L’esperienza che propongo al lettore è di giocare come ne “il libro dei mutamenti” ( “I Ching”) , creare con i versi, casualmente, esagrammi, “lanciarli” tre volte e trascriverne i responsi.
Agolini è indubbiamente dotato di una possente carica onirica. Come nella mostra Vicoli e veicoli, tenutasi a Villa Pignatelli (Napoli) nell’ambito del COMIC(ON)OFF, Il mondo gli si manifesta come in un gioioso specchio deformante, più precisamente sotto un’acqua riprodotta con il tratto ondoso; l’effetto per lo spettatore è, appunto, quello del bastone immerso nell’acqua. Guardando la sua produzione siamo portati a parlare di Agolini come di un pittore verista del fantastico. La cosa sarebbe piaciuta a Borges perché se è vero che in Agolini niente è ciò che sembra, è altresì reale che tutto sembra ciò che può sembrare. Non sappiamo cosa, in merito, penserebbe Parmenide.
Credo che lo strumento principale della percezione di Agolini sia una lente d’ingrandimento e che i suoi colori siano quelli del caleidoscopio. Dunque, anche qui l’idea del gioco, con l’avvertenza che l’uomo è serio solo quando gioca (Huizinga). Le narrazioni, per quanto le tavole rispettino le tappe del viaggio di Enea, avvengono simultaneamente come, appunto, accade nel sogno dove, nella costanza, qui, dell’azzurro, appaiono animali bioluminescenti, figure teriomorfe, teorie di delfini il cui salto recinta campi di papaveri e asfodeli.
Notevole la cura per i dettagli che l’artista pone nei suoi manufatti. Se non sapessimo che si parla delle rotte di Enea, l’insieme ricorderebbe alcune elaborazioni dell’immaginaria Atlantide o arcaiche incisioni su pietra. Ho sfogliato il libro immaginandolo come un rotulo il cui sigillo era, ed è, lo scudo di Enea. Nella descrizione che Virgilio fa di quest’arma si avverte un copia-incolla rispetto a quello di Achille. Il fatto che Agolini l’abbia scelta come frontespizio consente di decodificare l’intero lavoro. Lo scudo di Enea, infatti, è una profezia ex post, cioè la narrazione di fatti già avvenuti ma che continuano a svolgersi in un’aura da illo tempore. Si individuano due movimenti: il primo dai fatti dipinti sullo scudo verso il passato; il secondo dal passato ai fatti incisi sullo scudo. Ne deriva, pertanto, che il moto passato-futuro è circolare come lo scudo.
Desideriamo annotare un altro segnale, dovuto all’editore, che ci informa che il libro è stato concepito in ambiente marino flegreo: il mosaico, notissimo, di Baia sommersa, che incornicia il volume.