Una bambina di 12 anni, forse qualche anno in più, forse qualcuno di meno. Una bambina stesa su un tavolo, o per terra, o sul letto, mentre qualcuno le blocca le gambe, tenendogliele spalancate. Quello a cui deve sottoporsi è un rito di passaggio, le dicono, qualcosa che la farà diventare donna, un’usanza della sua cultura che la renderà degna. Degna di cosa non è chiaro: del suo nome, di trovare marito, di essere al mondo, chissà. Ciò che è certo è che non può sottrarsi, non può dire di no, o può dirlo, ma non servirà a salvarla da quella procedura che di cerimoniale non ha nulla, perché la giovane non può decidere per se stessa, esattamente come le altre donne prima di lei.
Mentre qualcuno o qualcosa la tiene in quella posizione spiacevole, lei deve star ferma per essere tagliata. Niente anestesia, non è così che si fa, e niente bisturi ovviamente, ma strumenti rudimentali come coltelli, forbici o rasoi. Quelle incisioni dolorosissime che sta per subire sono necessarie per asportare una parte del suo corpo incredibilmente sporca e indecorosa. Ogni luogo ha le sue specifiche indicazioni sull’asportazione totale o parziale del genitali femminili esterni ma, che quella bambina si trovi in Nigeria o in Senegal, il succo è sempre lo stesso: una lama improvvisata sega il clitoride, per asportarlo insieme alle piccole labbra, e le lacera le grandi labbra perché ne resti solo una parte. Poi le ferite vengono chiuse lasciando un piccolo foro, abbastanza grande da permettere al mestruo di avere regolare flusso, ma abbastanza piccolo perché a quella giovane non venga in mente di farci entrare qualcosa che non sia il marito che un giorno invaderà il suo corpo causandole un dolore inimmaginabile.
È vero, fanno paura queste parole, fanno ribrezzo, ma anche una descrizione senza sottintesi non rende davvero l’idea della brutalità di una pratica che ha centinaia di anni. A grandi linee sappiamo tutti cosa sono le mutilazioni genitali femminili, ne abbiamo sentito parlare qualche volta, e per un momento siamo stati tutti percorsi dai raccapriccianti brividi che neanche un dettagliato racconto di torture può suscitare. Ma poi, alla fine, decidiamo sempre di non pensarci, neanche quel tanto da ringraziare di essere nati nel lato giusto del mondo perché certe immagini fanno troppo male se ristagnano a lungo nella mente. Ma, forse, sarebbe utile pensarci più spesso, forse dovremmo visualizzare quella crudele sofferenza per decidere di impedirla.
Per fortuna, qualcuno l’ha fatto, probabilmente un po’ ci ha pensato, perché la scorsa settimana, in Sudan, le mutilazioni genitali sono diventate illegali. Il governo di transizione, salito al potere in seguito all’espulsione del dittatore Omar Hassan Al-Bashir, ha intrapreso un percorso di cambiamento e innovazione e, a distanza di un anno, ha ottenuto il successo di una legge rivoluzionaria: da ora in poi, chiunque pratichi le mutilazioni genitali femminili rischierà tre anni di carcere. Il provvedimento, acclamato dalle attiviste per i diritti delle donne di tutto il mondo, è arrivato in uno dei Paesi africani in cui la pratica è più diffusa. Le Nazioni Unite avevano infatti stimato che in Sudan nove ragazze su dieci vengono sottoposte alle mutilazioni genitali, ma non si tratta dell’unico Paese ad avere numeri così alti: provvedimenti del genere sarebbero altrettanto necessari anche in Etiopia, Kenya, Burkina Faso, Nigeria, Gibuti e Senegal.
Nonostante il grande traguardo, acclamato come vittoria in tutto il globo, le preoccupazioni per le donne sudanesi non spariscono del tutto. Infatti, non è detto che l’importante percorso intrapreso dal governo sudanese sia sufficiente e riesca ad abolire concretamente o, per lo meno, a limitare l’arcaica usanza. Si tratta, infatti, di una pratica tanto antica quanto diffusa, e sarà difficile sradicarla con una semplice legge. Per esempio, in Egitto, seppur vietata dal 2008, ancora il 70% delle donne tra i 15 e i 49 anni risulta mutilata.
Perché qualcosa cambi davvero, come per la maggior parte delle tradizioni di tipo patriarcale, è la cultura a dover essere incisa e radicalmente modificata. Dopotutto, quella delle mutilazioni genitali femminili non è una pratica ancorata a un’unica religione o a alla tradizione di una specifica area. Essa è anzi praticata in 27 Paesi africani e parti dell’Asia e del Medio Oriente – ma non solo, persino in America ed Europa – per un totale di 140 milioni di donne. E luoghi diversi, con lingue diverse, leggende e credenze differenti, hanno in comune una cosa sola: l’inferiorità della donna. Legano le mutilazioni alla fede religiosa, ma né Bibbia né Corano fanno mai cenno a nulla del genere. Le giustificano con infondate ragioni igieniche o sanitarie, nonostante sia comprovato che ogni mutilazione mette a rischio la salute, la fertilità e la vita di chi la subisce.
E se culture tanto distanti si legano le une alle altre tramite questo atroce valore comune, è solo perché non esiste modo migliore per controllare e sottomettere una donna: privarla della sua libertà sessuale. Asportarle il centro del piacere perché non le venga la malsana idea di decidere della sua sessualità, così che resti pura e così che appartenga a un solo uomo. E renderle doloroso l’atto sessuale, in modo che rappresenti esclusivamente un dovere coniugale, e che l’uomo a cui appartiene e che glielo imporrà abbia un potere fisico e psicologico su di lei.
La pratica è talmente radicata che sono le donne stesse a esercitarla, a violare il corpo delle bambine affinché non possano disporne da adulte. È questo che accade, quando le purificano. Quel dolore lancinante a cui le ragazze sono sottoposte a volte porta a gravi conseguenze sanitarie e qualche volta alla morte, eppure il momento di quella barbara mutilazione non rappresenta l’aspetto peggiore della tradizione. Il suo significato lo è, il motivo che la promuove e le conseguenze che ne dipendono. La sottomissione, l’assenza di volontà, la distruzione della libertà. L’idea che a ogni donna debba essere precluso il piacere e che esso diventi oltretutto una dolorosa pena da infliggerle e una potente arma per annientarla. Per annullare la sua volontà, la sua vita, la sua essenza. Perché non sia una donna, perché non sia un essere umano, ma uno strumento funzionale alla riproduzione e al piacere maschile. Perché della persona non resti niente.