La chiamano la questione meridionale e indica – come da fonte Treccani – l’insieme dei problemi posti dall’esistenza nel Mezzogiorno d’Italia dal 1861 sino a oggi di un più basso livello di sviluppo economico, di un diverso e più arretrato sistema di relazioni sociali, di un più debole svolgimento di molti e importanti aspetti della vita civile rispetto alle regioni centrosettentrionali. È una questione antica, eppure attuale; spinosa, eppure ignorata. Una questione che non ha trovato posto nemmeno alle ultime politiche e che, invece, le ha determinate più di quanto non si voglia ammettere.
All’indomani dalle elezioni del 25 settembre, infatti, le analisi sul voto – spesso travestite da giudizi insindacabili – si sprecano, inseguendosi erroneamente su un terreno scivoloso che poco o nulla ha da offrire a una riflessione più che mai necessaria. Certo, la vittoria schiacciante del centrodestra è un dato di fatto e merita attenzione, così come il ritorno di una dubbia politica e – soprattutto – di una dubbia gestione della cosa pubblica che è tornata a Palazzo proprio mentre stanno per arrivare ingenti fondi dall’Unione Europea. Eppure ce ne sono altri due, di dati, a cui nessuno sta guardando: l’astensionismo e, ancora di più, l’astensionismo al Sud.
A leggere i numeri, infatti, si fa presto a registrare l’affluenza alle urne più bassa di sempre (63.91%). Un dettaglio – che ovviamente non è tale – che racconta di una larga, larghissima porzione di elettorato che ha scelto di non scegliere, almeno non tra i candidati in lista per governare un Paese a oggi ingovernabile. In particolare, a mancare all’appello è stato il Sud, dove l’assenza alle urne ha assunto la forma di una vera e propria diserzione: in Campania, ad esempio, ha votato il 53.29% degli aventi diritto rispetto al 54.3% del 2018; in Calabria poco più del 50%, in Sardegna il 53.15%, in Sicilia il 57.42% (dove, però, ci si è espressi anche per le Regionali) e in Puglia il 56.55%.
Se storicamente al Sud si è sempre votato meno che al Nord, mai prima di questo settembre si erano toccate punte così basse. E questo, checché ne dicano i signorotti dal loro comodo salotto di casa che contestano la scelta di chi ha democraticamente deciso di non recarsi alle urne – esercitando, anche in questo caso, un diritto –, è un dato di fatto che non può concludersi con l’accusa di disinteresse o, peggio, di connivenza. Il silenzio in cabina elettorale, infatti, è il grido di protesta che quasi un meridionale su due ha lanciato a Roma: non mi rappresenti. Peggio: non voglio essere rappresentato da te.
È inutile girarci intorno: nemmeno stavolta la questione meridionale è stata al centro del dibattito. Non c’è stata in campagna elettorale, quando i candidati dei principali partiti hanno pensato di non doverne parlare, e non c’è oggi, all’indomani dalle elezioni, quando l’unica analisi sul voto è più una condanna, la solita, che vuole il Sud venduto al miglior offerente. E, ovviamente, l’offerente – come spesso in questi anni – è il reddito di cittadinanza. Quello che i più fini commentatori chiamano voto di scambio.
Esiste – e sarebbe disonesto negarlo – una certa correlazione tra la densità dei beneficiari del reddito e i consensi, al Sud, destinati al MoVimento 5 Stelle. Tuttavia, come scrive il CISE, il Comitato Italiano Studi Elettorali, occorre fare attenzione a non dare un’interpretazione sbagliata di questa correlazione. Anzitutto, c’è un rischio di fallacia ecologica: ovvero, i dati presentati sono aggregati a livello provinciale e sarebbe dunque sbagliato trarne implicazioni relative al comportamento elettorale a livello individuale. Quindi, più che un’associazione tra il reddito di cittadinanza in sé e il voto, quello che le statistiche raccontano è più generalmente un’associazione tra disagio economico e consenso al M5S, che pare importante nelle sue proporzioni e, quindi, nelle sue implicazioni politiche.
In aggiunta, questo tipo correlazione è presente non soltanto al Sud, dove il partito di Conte va meglio, ma anche al Nord e nella Zona Rossa. Sembra, quindi, che al netto dell’area del Paese, laddove ci sia stata una maggiore richiesta di reddito di cittadinanza il voto al M5S sia stato più alto.
Il sottotesto per i fini commentatori di cui sopra è che in questo legame esista qualcosa di torbido, un chiaro esempio di compravendita elettorale e non un segnale, allarmante, di disagio socio-economico. Al netto dei suoi limiti – che più volte su queste pagine abbiamo analizzato – la misura introdotta dal MoVimento 5 Stelle è la sola che in questi anni, in particolare con l’avvento della crisi legata alla pandemia, ha risposto alle difficoltà di molte famiglie italiane al punto da salvare – fonte ISTAT – un milione di persone dalla povertà assoluta.
Il rapporto annuale del noto istituto di statistica racconta, infatti, che l’intensità della povertà, senza sussidi, nel 2020 sarebbe stata di 10 punti percentuali più elevata, raggiungendo il 28.8% (a fronte del 18.7% osservato). Si legge, inoltre, che il numero di individui in povertà assoluta è quasi triplicato dal 2005 al 2021, passando da 1.9 a 5.6 milioni (il 9.4% del totale), mentre le famiglie sono raddoppiateda 800mila a 1.96 milioni (il 7.5%).
Parlare di voto di scambio – e parlarne per fomentare odio e alimentare classismo – è, dunque, nient’altro che una pericolosa strumentalizzazione: da parte dei media, da parte della politica, da parte – persino – dei cittadini comuni. Un’operazione che sposta il focus dal mandante alla vittima, criminalizzandola.
Una norma che impatta – e tanto – nella vita delle persone, dei più fragili, di chi diritti, nel Paese delle disuguaglianze, non ha, non può certo essere condannata. Invece, da destra a sinistra – perché la propaganda è più appetitosa di una pancia piena – avere fame, essere poveri, significa essere bestie da soma, incapacità di discernere cosa è giusto e cosa è sbagliato. E, guarda caso, sbagliato è proprio non avere niente. Lo dicono, lo ripetono, lo urlano con fare snob e pressappochista, come a non voler perdere altro tempo con chi non merita attenzione. Che fare, allora? Votare: sì, ma per chi? Non votare: no, tanto non esisto.
La povertà, il disagio sociale, la mancanza o l’impossibilità al lavoro non sono condizioni che si scelgono. Sono condizioni che si subiscono. Condizioni che non nascono oggi, con il reddito di cittadinanza o con il MoVimento 5 Stelle, ma in un passato lontano, nel tempo e nella critica storica, che chiamiamo – appunto – questione meridionale. Bastava, negli anni più recenti, non continuare a ridurre il Sud in miseria, a parlare di autonomie differenziate – e solo il Covid sa cosa hanno significato le forme ibride di gestione regionale che tante disuguaglianze presentano senza che si sia già attuato il sogno delle regioni del Centro-Nord. Bastava parlare di salario minimo, investire nella formazione dei giovani, eliminare la Legge Fornero e alzare il tetto delle pensioni.
Al contrario, al netto delle tante disfunzionalità, il reddito di cittadinanza è stato l’unica forma di welfare che il Sud abbia mai registrato. Votare con la speranza di preservare la misura, quindi, non è sbagliato. Non è scambio di interessi. Non è compravendita. È tutela di un diritto: il diritto a non morire di fame. Quello che – manco a dirlo – a destra e a manca si urla di voler negare mentre si pensa a una manovra ben più costosa e ad appannaggio di pochi, pochissimi (i ricchi), come la Flat Tax.
Se seguissimo gli stessi ragionamenti dei fini commentatori, noteremmo, a tal proposito, che il centrodestra registra importanti consensi proprio nelle aree e nelle fasce di popolazione più facoltose: il voto di scambio preventivo degli imprenditori, come dei magnati d’Italia, è quindi la Flat Tax – che, tra l’altro, allo Stato costerebbe circa sette volte in più del reddito di cittadinanza? O lo è già l’evasione fiscale che, al 2019, era pari a 203 miliardi di euro? Potremmo continuare a lungo ma nemmeno questa sarebbe un’analisi lucida, e onesta, del voto in Italia. Sarebbe un’ulteriore scelta di campo che, per quanto necessaria nei tempi che corrono, non renderebbe merito a un altro tema che è, forse, il tema che si tenta di raggirare.
È la mancata rappresentanza, è lo scollamento tra istituzioni e società civile, tra i politici e la politica, quella che si fa al servizio dei cittadini e non di se stessi. È l’assenza di una sinistra – perché a destra, duole ammetterlo, hanno chi può farsi portavoce – capace di intercettare il sentito comune per dare risposte. È anche questo, infatti, il risultato delle ultime elezioni: una punizione a chi, una volta comodo sulla sua poltrona, ha dimenticato il substrato a cui ha promesso autorevolezza. A cui ha chiesto un consenso per poi dimenticarsene subito dopo. Anche questo è voto di scambio? Secondo qualcuno sì, ma cosa votiamo a fare un Parlamento se non legifera a favore del popolo? Cosa votiamo a fare se non per migliorare le nostre condizioni di vita, per ridurre le diseguaglianze, per avere voce in capitolo?
È quello che è successo al Sud, è quello che è successo all’elettorato di sinistra, è quello che è successo a tanti poveri che ora hanno paura di cosa accadrà domani. Domani che non è futuro, ma tempo presente. L’assenza di una voce. L’assenza di una mano passata per la coscienza. L’assenza di un’unità nazionale che guardi a tutti con pari dignità. Cosa ne sarà di loro? Cosa ne sarà di un Meridione che nei programmi elettorali c’è stato soltanto in termini di reddito sì e reddito no? Cosa ne sarà dei non allineati all’agenda Draghi o Meloni che dir si voglia?
Non è l’assistenzialismo il problema – che, poi, assistere, che bella parola – è il vuoto istituzionale di chi vuole affossare una parte di Paese, il padrone che mette il guinzaglio al cane, che lo lascia digiuno e poi lo picchia se questi si fa rabbioso. È il vuoto programmatico.
Non trovo nessun motivo per scandalizzarsi del 42% a Napoli e in generale al Sud del M5S – che, tra l’altro, da queste parti ha sempre registrato ampi consensi, anche prima del rdc. Non trovo nessun motivo per scandalizzarsi di un Sud che non vota. Trovo scandalosa la condanna, la presa in giro, la guerra tra poveri. La guerra avviata dalla sinistra e alimentata dalla destra. Trovo scandalosi noi sotto lo stesso tricolore, dalle Alpi fino al mare. Ma se diventiamo una questione? La questione è meridionale.