Lo studio in carcere – lo abbiamo ribadito spesso – è uno strumento fondamentale per il perseguimento dell’obiettivo rieducativo sancito dalla nostra Costituzione. L’articolo 15 della legge sull’ordinamento penitenziario, infatti, inserisce l’istruzione tra gli elementi del trattamento rieducativo e il Regolamento di esecuzione fissa poi precise norme finalizzate ad agevolare e rendere fruibile il diritto allo studio e alla partecipazione a corsi di formazione professionale. Si stabilisce, così, la necessità di assicurare l’accesso alla biblioteca e la sua fornitura periodica, di curare la luminosità degli spazi e la loro idoneità allo studio, la compatibilità delle lezioni con eventuali lavori o corsi di altro tipo. Disposizioni che però spesso rimangono inattuate, data l’angustia degli spazi detentivi, la promiscuità della vita e la penuria delle offerte formative, che tuttavia sembrano essere state ribadite dalle Linee Guida elaborate dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dalla Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli penitenziari al fine di migliorare la collaborazione tra il mondo penitenziario e quello universitario.
Siamo ben contenti di osservare come finalmente a un tema così importante il Dap attribuisca la giusta attenzione, eppure ci preme sottolineare come non sia la prima volta che le istituzioni e in particolare la Ministra della Giustizia Cartabia manifestano slanci di umanità e civiltà verso il carcere, che però poi si risolvono in un nulla di fatto. Basti pensare alle proposte elaborate dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario – tra cui troviamo anche molte disposizioni riguardanti il diritto allo studio – al fine di migliorare la qualità della vita delle persone detenute – che, però, giacciono inermi, senza che a esse abbia fatto seguito alcuna iniziativa. E se pure in questo caso si potrebbe obiettare che sono passati solo pochi mesi, non nutriamo alcuna fiducia in forze politiche che non perdono occasione per ribadire l’idea giustizialista di pena che portano avanti.
È quanto avvenuto in occasione della nomina del nuovo capo del Dap scelto dalla Ministra Cartabia, Carlo Renoldi, considerato dai più troppo garantista. La notizia della sua nomina è stata infatti accompagnata da numerose polemiche, dovute alle posizioni di Renoldi su temi come l’ergastolo ostativo e in particolare sulla necessità di assolvere a quella funzione rieducativa della pena che la nostra Costituzione definisce imprescindibile. Dichiarazioni che possono essere considerate in linea con i dettami di un paese civile o che si definisce tale e che invece suscitano scalpore poiché i nostri rappresentanti considerano la pena, in particolare quella detentiva, una punizione che va ben oltre la restrizione della libertà personale.
Così, tutte le iniziative e le attività rieducative e risocializzanti non hanno terreno fertile negli istituti di pena nostrani, ancor di più dopo lo scoppio della pandemia che ha messo in luce tutte le criticità del mondo carcerario, in particolare la sua alienazione rispetto alla società, dovuta anche all’ostilità nei confronti degli strumenti telematici e di rete, che vengono considerati dei rischi, anziché delle risorse. Talvolta, anche la magistratura commette strafalcioni: ricordiamo bene quanto accaduto solo pochi mesi fa, quando il Tribunale di Bologna ha negato una detenzione domiciliare per motivi di salute, adducendo che il ricorrente, avendo conseguito una laurea e un master in carcere, avesse potuto affinare le sue capacità e dunque la sua idoneità a reiterare condotte illecite. E così da strumento di riscatto e rinascita lo studio è capace di diventare un pericolo.
Stavolta, però, abbiamo anche delle notizie rassicuranti: in base agli ultimi dati diffusi dalla Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari, gli studenti iscritti all’anno accademico 2021-2022 sono 1246, in costante crescita negli ultimi anni. Dati positivi, ma ancora insufficienti se si considera che gli istituti attualmente coinvolti sono solo 91 e le Università aderenti 40. Un ulteriore passo in avanti è stato fatto nei giorni scorsi, quando un protocollo analogo a quello siglato con il Dap è stato concluso anche tra la suddetta Conferenza e il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, per permettere lo svolgimento di iniziative che avvicinino anche i più giovani al mondo accademico, mettendo loro a disposizione uno strumento di rinascita ulteriore.
Sono però ancora molti gli obiettivi da perseguire, primo tra tutti una presa in carico istituzionale che sia completa e soddisfacente: se è vero che il mondo del volontariato e dell’associazionismo rappresentano delle risorse indispensabili per la vita carceraria e il perseguimento di una vera risocializzazione, le responsabilità maggiori devono rimanere a carico dello Stato, che non può disconoscere le legittime pretese di quelli che sono suoi cittadini. E poi possibilità concrete di svolgere formazioni professionali e lavoro intramurario e all’esterno, di rientrare in società con qualcosa in più, insomma tutto ciò che postula un’opportunità di vita per chi spesso non l’ha avuta.