Sarà colpa del caldo asfissiante di questo periodo o forse del livello talmente alto del governo dei migliori e dei partiti che lo hanno sostenuto per 553 giorni, ma si avverte la grande difficoltà di comprendere le banali giustificazioni, le dichiarazioni e le improvvise crisi d’identità di alcuni esponenti delle forze politiche ammaliate dal canto delle sirene draghiane. Da Brunetta a Gelmini, che neanche il Bunga-Bunga osò turbare, sono tutti stregati sulla via del banchiere presidente, travolti da una crisi mistica tale da abbandonare l’imprenditore di Arcore, adorato al punto da giurare e votare che Ruby era la nipote di Mubarak assieme all’attuale seconda carica dello Stato e all’aspirante Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Ma questa è acqua passata, seppur ancora maleodorante, a tratti fetida, come del resto la strana e atipica crisi che dà ragione perfino a un Cacciari in versione ragionevole: Dimissioni di Draghi? Ci troviamo di fronte all’incomprensibile, una cosa mai accaduta nelle democrazie occidentali: un Presidente del Consiglio che si dimette senza avere avuto alcun voto di sfiducia e con la stragrande parte dei componenti della sua maggioranza che dicono di voler continuare con lui. Una domanda che su questo giornale ci siamo posti a poche ore dall’apertura della crisi e la cui risposta, con molta probabilità, sarà evidente nei prossimi mesi, se non già nelle prossime settimane, intuita forse proprio dai fuggiaschi di Forza Italia con tempismo da record, salvo restare delusi e con il rischio di dover ricorrere al reddito di cittadinanza per assicurarsi la vecchiaia.
Nel frattempo, i sostenitori del governo dei migliori hanno messo in campo la strategia del terrore mediatico che da decenni, con obiettivi del momento, dà sempre discreti risultati, addossando l’unica responsabilità della crisi di governo a Giuseppe Conte – come sottolineato anche dal rinsavito Cacciari – e individuando quale unico pericolo prossimo Giorgia Meloni, dimenticando che la stessa ha guidato a lungo il Paese con Salvini, Berlusconi e soci, allontanandosene soltanto per i 553 giorni della partecipazione dei suoi alleati all’esecutivo del banchiere ma sottoscrivendo l’invio delle armi all’Ucraina.
Una strategia da subito messa in pratica dal segretario del Partito Democratico che ha preso le distanze dal MoVimento pentastellato, strizzando però l’occhio a quel Di Maio per tutte le stagioni e alla mina vagante della nostra democrazia che, con un’operazione discutibile dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, mandò a casa Enrico Letta dopo appena trecento giorni.
Chi lavora alacremente al centro, intanto, è Carlo Calenda che ha spalancato le porte a quanti in questi giorni stanno abbandonando la nave dell’ex Cavaliere, puntando su Palazzo Chigi in caso di successo e di un rifiuto di Mario Draghi.
Alcune settimane ancora in questa calda estate per definire strategie, alleanze possibili e candidature. Pochi giorni per capire se il vincolo dei due mandati in casa dei pentastellati salterà per evitare ulteriori emorragie di voti; se l’uomo in giro per il mondo, indicato da molti come l’ultima speranza dei grillini, scenderà in campo per recuperare un po’ di consensi e se le sirene del draghismo cesseranno di cantare per mete ben più ambite dal banchiere, in vista di settembre dell’anno prossimo quando andrà a scadere il mandato, già prorogato, dell’attuale segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, che potrebbe lasciare l’amaro in bocca al Commissario Europeo per l’Economia Paolo Gentiloni.
Di certo, non dovrà ricorrere al reddito di cittadinanza l’astuto Premier dimissionario – ancora convinto che gli italiani gli abbiano chiesto di restare (ignote le fonti) –, che non avrà bisogno di riflettere su cosa vorrà fare da grande se, come probabile, avrà ricevuto adeguate garanzie grazie anche ai servigi resi senza alcuna titubanza a quei centri decisionali d’oltre oceano. Contrariamente, solleverà dalle preoccupazioni Brunetta, Gelmini e Di Maio, anche se quest’ultimo non avrebbe alcuna difficoltà a trovare casa qualora riuscisse a raggiungere quel 2% – al momento valutato con generosità dai recenti sondaggi 2.6% – qualunque sia la coalizione vincente.
Una destra come sempre coesa in occasione delle competizioni elettorali, pur perdendo esponenti di spicco come sta accadendo in Forza Italia, salvo strapparsi i capelli in caso di vittoria per la guida di Palazzo Chigi, e con un Berlusconi che ancora una volta annuncia la propria candidatura promettendo pensioni minime a mille euro e sognando l’impossibile: diventare il vice di Sergio Mattarella.
Una sinistra, almeno di nome, quella del PD, ancora incerta se proseguire l’intesa con i pentastellati di Giuseppe Conte in un primo momento scartata o ricercare accordi con un Calenda scatenato, apparentemente disponibile ma con una pregiudiziale che non consente alcuna trattativa: il no categorico a Letta Presidente del Consiglio.
A sinistra della sinistra qualcosa pur si muove, ma c’è poco margine per definire e capire possibili alleanze e percorsi comuni, una corsa contro il tempo di tutte le forze politiche vecchie e nuove nella speranza che non siano riproposte solite minestre, ma valide alternative e, soprattutto, uomini credibili.
Sarà un Ferragosto di fuoco.