Nelle grandi città come Berlino, le persone – che siano semplici turisti o distratti abitanti del posto – tendono, per lo più, a passeggiare con la testa rivolta verso l’alto. Sarà per via della maestosità del luogo, dell’imponenza dei monumenti, dello slancio dei nuovi palazzi costruiti dopo la fine della guerra, delle insegne luminose dei negozi in Friedrichstraße, che gli occhi quasi non guardano mai a terra. La Porta di Brandeburgo o la cupola del Duomo, fino alla Torre della televisione di Alexanderplatz con i suoi 368 metri d’altezza, ogni sito d’interesse storico, culturale, turistico, cattura lo sguardo dei passanti verso una limpida porzione di cielo. È così che Berlino, attraverso questo fascinoso trucco, distrae il forestiero, quel tanto che basta, dalla sua storia ingombrante, cruda, una storia scritta nei luoghi dove lascia il silenzio libero di regnare, forse per rispetto, forse per accogliere i pensieri dei tanti che ancora si interrogano e non trovano risposte. Il passato, però, si inscrive nella pietra, nelle Stolpersteine, lì dove l’uomo cammina, calpesta la strada, attorno alla vita che gli si sviluppa di fianco, interpellando il tatto oltre che la vista.
Nacque sfruttando questo stesso intento, catturandone la stessa forza emotiva, l’idea dell’artista tedesco Gunter Demnig, la Stolpersteine, meglio conosciuta come Pietra d’inciampo. L’iniziativa, partita in Germania, a Colonia nel 1955, non è, tuttavia, una prerogativa esclusivamente tedesca. Negli anni, infatti, andò diffondendosi in decine di paesi in tutta Europa, Italia compresa (la Stolpersteine numero 50.000 fu sistemata a Torino). A oggi, sono oltre 56.000.
L’intento di Demnig fu quello di impiantare nel tessuto urbanistico e sociale delle principali città europee una prova tangibile di ciò che era la vita dei deportati nei campi di sterminio nazisti, un oggetto per custodirne e salvaguardarne la memoria, attraverso l’installazione delle ormai celebri pietre in ottone tra la regolare pavimentazione delle strade cittadine.
Su ogni Stolpersteine, posta davanti alla porta dell’abitazione in cui visse la vittima della follia nazista, o nel luogo in cui fu fatta prigioniera, Deming incise – e ancora incide – il nome della persona, l’anno di nascita, la data, l’eventuale luogo di deportazione e la data di morte, se, almeno quest’ultima, sopravvissuta all’oblio dei lager. Attraverso tali discreti mattoncini, l’artista nativo proprio della capitale tedesca, restituì identità a tutti quelli che Hitler condannò a essere soltanto un numero.
Le ormai celebri pietre di Demnig sono reperibili in oltre settecento città, paesi e borghi dell’intera Germania. Eppure, è a Berlino che il loro fascino attira il turista e accarezza l’emotività di chi, invece, quotidianamente calca quei marciapiedi che le custodiscono. Il quartiere ebraico, lo Scheunenviertel, è ricco di testimonianze di quelle vite strappate alla quotidianità, trascinate via verso un destino tragico, con la morte come quasi certa conseguenza. In un largo tratto di Grosse Hamburgerstrasse la guerra ha lasciato cicatrici profonde, ancora tutte ben visibili, dalle tracce di proiettili che ancora squarciano facciate dei palazzi, alla Missing House – civico 16 – un edificio bombardato durante la guerra, mai più ricostruito e trasformato in un monumento anch’esso dedicato alla memoria di chi lo abitava.
Nelle Stolpersteine, “inciampa” lo sguardo, si imbatte, casualmente, il pensare delle persone, si ferma a riflettere, sbanda prima di ritrovare un regolare equilibrio. Un’invenzione, quella di Demnig, che discreta cattura il lato emotivo di chi oggi passeggia libero in uno dei quartieri più interessanti e alla moda della capitale. Un espediente che tiene accesa la memoria e stimola il senso d’angoscia.
*contenuto pubblicato per “Il Mitte – Quotidiano di Berlino per italofoni” ad opera dello stesso autore. (13 aprile 2017)