Quando nel 2016 passò la Legge 76, storia sembrò fatta in materia di diritti civili. Pur vigendo la consapevolezza delle innumerevoli lacune che la Legge Cirinnà presentava, infatti, la possibilità, per la prima volta in Italia, di conseguire un’unione civile tra due persone dello stesso sesso sembrò un passo fondamentale nella direzione del progresso. Che le unioni civili fossero distinte dai matrimoni destava malcontento principalmente di questione teorica nel non voler conferire pari valore e medesima importanza a legami basati sugli stessi principi conseguiti, però, senza l’ufficialità delle nozze. Ma, per quanto riguardava i diritti, le coppie sembravano, finalmente, analoghe a quelle sposate.
In realtà, la sottolineata differenza tra unioni civili e matrimoni tradizionali, in ambito familiare, ha una pesante valenza all’interno della Costituzione. L’articolo 29 della legge fondamentale dello Stato italiano sancisce che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società fondata sul matrimonio, quel tipo di unione riconosciuta tale solo tra un uomo e una donna. E quindi, anche se ai fini dei diritti della coppia le unioni civili si equiparano ai matrimoni, questo non accade per quanto riguarda il diritto di famiglia e, in particolare, il riconoscimento dei figli.
In Italia, così come in molti altri Paesi, la genitorialità di una coppia omosessuale è riconosciuta solo all’uomo o alla donna che ha un legame biologico con il minore. Nei casi di maternità surrogata e di fecondazione eterologa, la potestà della prole è quindi riconosciuta esclusivamente alla madre partoriente o al padre biologico. In Francia, Spagna, Grecia e Regno Unito è prevista l’adozione piena e legittimante da parte del genitore non biologico, mentre in Germania è prevista l’adozione del configlio ma non quella esterna per coppie omosessuali. L’adozione del configlio, anche conosciuta come stepchild adoption, è un istituto giuridico che consente l’adozione del figlio del proprio partner ed è stato inizialmente pensato per coppie formatesi tra vedovi o divorziati. L’istituzione stessa della stepchild adoption fa riferimento, quindi, a figli che sì diventeranno effettivamente tali anche del nuovo genitore, ma che non nascono come tali perché concepiti da unioni precedenti.
L’utilizzo del termine per le famiglie cosiddette omogenitoriali, quindi, sminuisce il rapporto tra genitore e figlio, sottolinea la disparità tra il genitore biologico e il non biologico e lede al diritto di famiglia. In Italia la legge non consente l’adozione del configlio, anche se sono numerosi i casi in cui la giurisprudenza ha concesso procedure di riconoscimento. Ma la questione non si ferma, o dovrebbe fermarsi, all’impossibilità di adozione, quanto all’inadeguatezza che c’è a monte dell’utilizzo del termine. L’adozione, nel suo significato giuridico, infatti, permette a un soggetto di poter ritenere ufficialmente suo figlio un minore con il quale, in precedenza, non aveva alcun legame. Un termine che si rivela inadatto fin dalla sua etimologia quando si parla della genitorialità di due individui, civilmente uniti, che decidono insieme e con lo stesso impegno di prendersi cura di un bambino.
Al di là dell’uso improprio dell’istituto giuridico e la mancanza di una normativa che riconosca la genitorialità indipendentemente dai legami biologi, negli anni che hanno seguito la Legge Cirinnà, per fortuna, in molti casi la stepchild adoption è stata consentita a discrezione dei giudici. Una pratica che indica quanto, nonostante l’arretratezza di leggi e società, la giurisprudenza abbia superato la norma, riconoscendo alle famiglie arcobaleno di essere ritenute tali. Ma mentre degli episodi normali si sente poco parlare, negli ultimi mesi sono saltati più volte all’occhio mediatico episodi particolari in cui la richiesta, accettata o respinta, di adozione, ha fatto parecchio scalpore. In quei casi, gli ultimi risalenti ad agosto e alla settimana scorsa, l’adozione è risultata costantemente ostacolata poiché ha coinvolto un’altra delle questioni più scottanti che l’Italia si trova ad affrontare: la cittadinanza. In entrambe le vicende, il Tribunale di Bari e il Tribunale di Pisa si sono ritrovati alle prese con madri non biologiche italiane che richiedevano l’adozione del figlio partorito dalla compagna straniera e priva di cittadinanza. Scuotendo così non solo l’intransigente esclusione delle coppie omosessuali dalla definizione di famiglia, ma muovendosi sull’ancora più scivoloso terreno della cittadinanza, questione tanto cara agli orgogliosi e patriottici nostrani.
Nonostante la frequenza delle richieste di riconoscimento della genitorialità da parte di coppie omosessuali, non esiste ancora una norma che tuteli la libertà di costruire e creare una famiglia, che sia riconosciuta a livello giuridico. Il vuoto normativo, però, non può essere imputato come unico colpevole di questa frustrante battaglia a un Paese che non riconosce i diritti di famiglia a delle famiglie di fatto. Piccoli sforzi di tolleranza possono essere compiuti discrezionalmente analizzando ogni caso per sé. Ma si tratta di una discrezionalità il cui solo bisogno di esistere rappresenta una grave discriminazione, all’interno di una società paradossale in cui bisogna parlare di tolleranza e accettazione, di apertura, invece che di tutela dei diritti fondamentali, quegli stessi diritti custoditi nella Costituzione ma non sempre riconosciuti a tutti.