Sempre più spesso viene da chiedersi quale sia, oggi, il confine tra provocazione e incitamento all’odio. Nel dubbio, la soluzione politica più conveniente sembra la censura. Qualche settimana fa è stata presentata un’interrogazione parlamentare per far ritirare dal mercato Squillo, un gioco da tavolo per adulti che consiste nel gestire un giro di prostitute. Non è la prima volta che succede: la sua uscita, nel 2012, suscitò la medesima reazione. Da allora, Squillo ha venduto più di 50mila copie: non è chiaro quanto abbiano effettivamente influito sulla sua diffusione le bufere polemiche e i falliti tentativi censori, anche se sul sito della casa produttrice viene esplicitamente riportato che Squillo è diventato un “cult” nel settore gaming dopo la richiesta di interrogazione parlamentare per vietarne la vendita.
Il gioco, che viene raccontato erroneamente come una sorta di Monopoly a luci rosse da giornali e riviste che hanno riportato la notizia online, è ascrivibile a una particolare categoria ludica che fa del black humor una colonna portante. In questo senso è più paragonabile al celeberrimo Cards Against Humanity che non al Monopoly, sebbene le dinamiche siano articolate in maniera molto diversa. Trattandosi di un gioco di carte collezionabili – ogni giocatore può aggiungere al proprio mazzo carte provenienti da altre espansioni al fine di aumentare le proprie possibilità di vittoria, distruggendo per sempre sogni e speranze degli avversari –, agli appassionati del genere non sembrerà dissimile da Munchkin. Tuttavia, comprendere la differenza tra Monopoly e Squillo è importante anzitutto per mettere a fuoco con chiarezza l’oggetto della polemica e, solo dopo, formulare un pensiero sulla vicenda.
Se, infatti, in Monopoly le azioni del giocatore si basano su un complicato intrico di compravendite e astuzie commerciali e si posseggono proprietà dalle quali si guadagna in maniera passiva, in Squillo la compravendita è quasi del tutto assente. I giocatori, i papponi, pescano a sorte le carte sulle quali sono raffigurate prostitute dai nomi irripetibili in pose scandalose e, contrariamente a quanto viene raccontato, non dispongono di queste ricavandone una rendita passiva. Quelle di Squillo, infatti, sono come le carte di Munchkin: contengono tutte le statistiche di attacco e difesa del personaggio, l’abilità speciale e il proprio valore economico. Il fatto che sulle carte siano disegnate delle prostitute e non delle creature fantastiche è semplicemente causa dell’ambientazione di gioco.
Ogni prostituta non è, dunque, paragonabile a una casa in Parco della Vittoria: a ogni turno bisognerà decidere in base alla propria strategia come far muovere i personaggi facendo leva sulle debolezze degli avversari. Forse, l’unica cosa che Squillo ha in comune con Monopoly è la dose di cinismo necessaria ai giocatori per vincere: bisogna essere pronti a calpestare e lasciare in mutande gli avversari, a passare sopra tutti e tutto.
Certamente Squillo non è un passatempo adatto a tutte le sensibilità: è violento, disgustoso, volgare, scabroso, l’antitesi del politicamente corretto. Non sarebbe intellettualmente onesto, però, bollare qualsivoglia forma d’intrattenimento come incitamento all’odio e alla violenza di genere solo perché costringe lo sguardo dell’opinione pubblica su temi che preferiamo lasciare sotto il tappeto.
Durante un’intervista radiofonica sull’argomento, Elisa Scutellà, deputata del M5S e promotrice dell’interrogazione parlamentare, viene incalzata ripetutamente dal giornalista che le chiede perché mai, insieme a Squillo, non ci si impegni a far ritirare dal commercio anche i videogiochi di simulazioni di guerra e crimine come Grand Theft Auto o Call of Duty, in cui la violenza non è solo immaginata ma ben visibile. A questa domanda, la deputata fatica a rispondere. Eppure nei videogame sopracitati il sangue sgorga a volontà da ferite aperte a colpi di proiettili, i gamer misurano la loro bravura nel gioco contando le kill, le uccisioni. In che modo questa violenza sarebbe diversa? Sorge il dubbio che il problema, con Squillo, non sia il timore che istighi alla violenza, all’odio di genere o allo sfruttamento alla prostituzione. Il problema è che parlare di prostituzione in un gioco da tavolo in qualche modo la banalizza.
In King Kong Theory, saggio edito in Italia per Fandango, Virginie Despentes riflette a lungo sul tema. L’autrice ne parla con cognizione di causa, avendo esercitato lei stessa occasionalmente l’attività. La sua penna affilata prende di mira il nostro modo di concepire e narrare il fenomeno. Le tv, i giornali, i documentari se ne occupano partendo da immagini inaccettabili di una prostituzione praticata in condizioni rivoltanti e da esse traggono le conclusioni sul sesso a pagamento nel suo insieme. La prostituzione è sempre considerata degradante per la donna. Essendo umiliante, è fuori dal nostro ordine delle idee che qualcuno possa decidere di prostituirsi volontariamente per ricavarne profitto. O che qualcuno possa trarne un gioco da tavolo carico di umorismo nero.
Banalizzare la prostituzione vuol dire affrontare il fenomeno liberi dai tabù sulla sessualità maschile e femminile, riconoscerne le ramificazioni, garantire condizioni di lavoro dignitose a chi sceglie di intraprenderla. Alcune delle affermazioni della Despentes sono volutamente taglienti, provocatorie, scioccanti. Mirano dritto alla membrana di moralismi in cui il lettore è immerso a sua insaputa e la strappano via bruscamente.
Pur sfruttando la spettacolarizzazione del degrado che la Despentes tanto depreca nel suo saggio, Squillo utilizza lo stesso metodo estremo di fare provocazione. Si potrebbe obiettare che raramente gli estremismi e le provocazioni stimolano una riflessione sana. Nella fattispecie del discorso sulle donne, il potere e la sessualità, però, non funziona propriamente così. Da tempo le donne – e i membri delle comunità LGTBQA+ – si sono appropriate della forza provocatoria degli stigmi associati alla prostituzione e alla pornografia per farne uno strumento di empowerment. Pop star da Madonna a Miley Cyrus si sono strizzate in tutine di latex che lasciano poco all’immaginazione per dare voce ai desideri e alle aspirazioni femminili; così come in Italia è scoppiato di recente il fenomeno Myss Keta che, con una maschera in viso e le curve accentuate da abiti succinti, canta di sesso e potere nei suoi testi altamente ironici. Lo stesso ideatore di Squillo, Immanuel Casto, è una star del genere musicale porn groove che sfrutta gran parte della propria popolarità per fare attivismo sul tema dei diritti civili. Moltissimi dei suoi brani non sono meno irriverenti del gioco da tavolo. La provocazione è riappropriazione.
La scrittrice e attivista femminista Audre Lorde sottolinea quanto si affanni la società occidentale a tenere le donne separate dal proprio potenziale erotico. Lo fa proponendo un’arbitraria distinzione tra erotismo e femminilità: le donne devono essere desiderabili, ma questa desiderabilità non può e non deve diventare uno strumento di potere, di indipendenza economica, nelle loro mani. Dalle riviste di settore occhieggiano milioni di esempi in tal senso: in una sua ennesima provocazione, la Despentes afferma di non riuscire a capire la differenza tra il modello di femminilità proposto dai rotocalchi e quello delle puttane, se non fosse per il fatto che i magazine contribuiscono alla narrazione del sesso a pagamento come degradante. Manco a farlo apposta, le pagine online delle riviste rivolte a un pubblico di donne che si sono occupate del caso Squillo non si limitano a riportare la notizia ma esprimono tutte una condanna piuttosto dura al gioco e, in qualche caso, alle persone che ci giocano.
In questo modo non invitano le proprie lettrici alla riflessione sull’argomento, complesso e spinoso, e del perché non possa essere in nessun caso materia di satira, ma impongono loro una visione dei fatti: parlare di sfruttamento della prostituzione in un gioco da tavolo è vergognoso e disumano e noi donne assennate ce ne dissociamo a piena voce. Se ci hai giocato e magari ti sei pure divertita, se sei ancora qui a chiederti in quale modo migliorerebbe la vita delle professioniste del sesso in Italia la censura di un gioco da tavolo, sei una degenerata o una maschilista.
Quanto e cosa dicono di noi una politica e un’opinione pubblica che si professano attente alle esigenze delle donne e individuano l’esigenza nella censura di un passatempo per adulti, rifiutando di affondare le mani e le coscienze nel fenomeno, che pure trovano degradante, della prostituzione? Preferiamo far finta che non esista, ma sappiamo che esiste. Preferiamo allora che non si veda, che almeno non ci venga sbattuto in faccia durante le feste, in alternativa alla tombola. Sia mai che un gioco violento, volgare, estremo dovesse spingerci a riflettere sul fallimento del nostro sistema sociale strappandoci un’amara risata.