È facile illudere la gente che già si illude da sola: è questa la battuta su cui si fonda il senso del nuovo Spider-Man: Far From Home, perfettamente incarnato ancora una volta dal giovane Tom Holland. Non solo commedia teen dai toni agrodolci, né soltanto nuovo cine-comic Marvel che vede per la seconda volta protagonista assoluto il ragnetto più amato dei fumetti, ma anche riflessione metanarrativa sull’intera operazione cinematografica del MCU (Marvel Cinematic Universe), e qualcos’altro ancora.
Ma facciamo un passo indietro. Questo nuovo Stand-Alone (film da solista) dell’arrampicamuri non è soltanto il sequel di Homecoming (2017), primo capitolo del ritorno all’ovile di Spider-Man – causa parziale restituzione dei diritti cinematografici del personaggio di proprietà della Sony alla Marvel –, ma anche il ventitreesimo film del MCU, nonché il primo a dover tirare le fila dopo gli sconvolgimenti narrativi di Avengers: Endgame. Come si sa, Iron Man è morto, Capitan America è invecchiato a causa di un paradosso temporale e la terra è rimasta senza supereroi, o quasi. Senza chiamare in causa Brecht e la sventura di una terra bisognosa di eroi, per fortuna c’è Peter Parker/Spider-Man a raccogliere l’eredità di Tony Stark/Iron Man nella difesa della Terra da nuove minacce, aliene e non. O, almeno, ci sarebbe Spidey: perché Peter non ne vuol sapere di rimettersi la tuta da Uomo-Ragno dopo gli ultimi traumatizzanti eventi di Endgame e preferisce di gran lunga architettare il suo elaborato, e impacciato, piano di corteggiamento della bella MJ (Zendaya), approfittando di una gita scolastica in giro per l’Europa, piuttosto che occuparsi di eventuali pericoli per l’umanità. Infatti, si fa negare al telefono perfino al burbero Nick Fury (Samuel L. Jackson) che, orfano degli Avengers, è in cerca di supereroi che ne rimpiazzino il ruolo.
Così, la prima parte del film si attiene ai toni di un divertente teen-movie di ambientazione studentesca con tutti gli elementi tipici: la ragazza da conquistare tra mille imbarazzi ed equivoci, il belloccio antipatico da contrastare, l’amico-spalla che strappa momenti esilaranti. A complicare il tutto, però, ci si mette Fury con la sua missione da affibbiare alle fin troppo giovani spalle di Peter – in fondo ha soltanto 16-17 anni – che, come da manuale di sceneggiatura americana ispirata alle teorie di Vogler sul viaggio dell’eroe – a loro volta ispirate da Campbell e in ultima analisi da Jung –, rifiuterà inizialmente il richiamo all’avventura da parte del nuovo mentore. Tuttavia, non potrà sfuggire a lungo al dilemma morale della responsabilità, lui il supereroe che ha fatto del motto Da un grande potere derivano grandi responsabilità la sua filosofia di vita. Soprattutto perché la vacanza-studio della scuola comincia a essere funestata dagli attacchi di giganteschi esseri denominati Elementali e caratterizzati dai 4 elementi: aria, acqua, terra e fuoco.
Si comincia con una bella devastazione di Venezia, per poi proseguire con Praga e infine Londra. A contrastare tali esseri ci pensa Mysterio, – un inedito Jake Gyllenhaal, lui che aveva giurato di non recitare mai in un cinecomic –, personaggio dai raggi verdi che sprizzano dalle mani caratterizzato da una specie di sfera di cristallo come casco, ben noto agli aficionados delle avventure su carta dell’Uomo-Ragno. Unico a comprendere il dilemma di Peter tra vita privata e vocazione supereroistica, Quentin Beck, in arte Mysterio, si propone come nuovo amico e mentore di Spidey, il quale lo vede addirittura come erede ideale di Stark. Forse anche per sfuggire alle proprie responsabilità. Come sanno i lettori più affezionati del nostro altrettanto Affezionato Spider-Man di Quartiere, però, le cose non sono proprio come sembrano.
Ed è qui che il film cambia con una svolta che, per ovvie ragioni, non possiamo rivelare. Non solo la storia vira decisamente più sul versante action, come è giusto che sia per una pellicola di supereroi, ma diventa anche una riflessione non banale sulla macchina-cinema in quanto creatrice di illusioni e in particolare sul ruolo che la Marvel ha avuto negli ultimi 11 anni nel contribuire alla costruzione di tali illusioni, nel bene e nel male. Fin dai tempi di Méliès e delle sue mirabolanti illusioni ottiche, tipiche del cinema delle attrazioni, la stessa arte cinematografica è nata sotto il segno della baracconata intesa, in senso positivo, come grande festa per gli occhi, sulla cui illusorietà si basa il patto con il pubblico. Con l’introduzione del digitale però, a partire dagli anni Novanta, e soprattutto con l’elevato livello di foto-realismo raggiunto dagli attuali effetti speciali, è diventato difficile, se non impossibile, stabilire la natura, fittizia o reale, di ciò che vediamo sullo schermo, ovvero se si tratta di trucchi vecchia maniera – modellini, pupazzi, scenografie ricostruite in studio – che fanno parte della dimensione pro-filmica, cioè di tutto ciò che si trova davvero sul set davanti alla macchina da presa, oppure se si tratta di CGI (Computer Generated Imagery) aggiunta in post-produzione. La questione è ovviamente molto delicata e porterebbe a considerazioni filosofiche che non è il caso di affrontare qui ma, per tornare a Spider-Man, è importante notare come la riflessione meta-cinematografica di quest’ultimo capitolo non coinvolga soltanto la dimensione ontologica degli effetti speciali, ma si estenda a una critica della nostra società dominata dall’illusione anche nel campo delle notizie.
Il proliferare indiscriminato delle fake news, la difficoltà di distinguere il vero dal falso, non solo nel campo della finzione cinematografica ma anche nel mondo digitale nel quale viviamo immersi, sono altri temi che vengono indirettamente accarezzati dalla pellicola, grazie anche a due scene post-credit che ribaltano totalmente alcuni punti di vista sulla vicenda. Di più non si può dire, purtroppo. Aggiungiamo soltanto che in una di queste scene ci sarà anche il gradito ritorno di uno dei volti più amati della prima trilogia di Spider-Man, quella realizzata da Sam Raimi tra il 2002 e il 2007, con Toby Maguire nel ruolo di Peter, per intenderci.
Visivamente, il film è condito da un paio di scene lisergiche molto efficaci, inusuali per una pellicola sull’Uomo-Ragno, che fanno il paio con il capitolo più psichedelico dell’intero MCU e cioè Doctor Strange (2016). Doctor Strange is always changing size cantavano, non a caso, i Pink Floyd negli anni Sessanta. Al netto di tutto, comunque, questa nuova avventura, che chiude anche la fase 3 del MCU, riesce ad assumere tante identità diverse, inserendosi coerentemente nel complicato evolversi dell’universo Marvel, senza snaturare lo spirito del fumetto originale – sintetizzato brillantemente da Tony Stark nel precedente Homecoming con la battuta Aura da eroe Springsteeniano della classe operaia, riferita ovviamente a Spidey – ma, anzi, arricchendolo di sfumature molto divertenti e di riflessioni non banali. Sempre relativamente a un cine-comic, è ovvio.
Nota ulteriore per i fan: nei titoli di coda, insieme con il mitico Stan Lee, viene finalmente e doverosamente ricordato anche Steve Ditko, il co-creatore di Spider-Man, scomparso anche lui l’anno scorso, proprio qualche mese prima del fondatore della Casa delle Idee.