Non sono andata a votare. Domenica, mentre tutti sguazzavano tra il fango e la pioggia per raggiungere le urne, io me ne stavo tranquilla sotto il piumino. Alcuni giornali mi bollerebbero come disinteressata, altri come indecisa scoraggiata dal maltempo. Ma in realtà, io a votare ci volevo andare. Avevo pure un’idea chiara di cosa fare con la mia scheda. E allora perché non mi sono mossa? Perché sono fuorisede, e non ne ho avuto la possibilità.
Studenti, lavoratori, disoccupati in cerca di fortuna: siamo in circa 4.9 milioni (pari al 10.5% del corpo elettorale) a vivere lontani dal nostro Comune di residenza. Ognuno di noi, durante elezioni e referendum, viene chiamato a tornarne all’ovile, e a votare nell’urna designata. Un esodo di donne e uomini che si riversano su treni, autobus, aerei, pur di tornare al proprio Comune. Beh, non proprio un esodo, dato che gran parte di noi resta a casa.
Le uniche file che riempiamo sono quelle degli astenuti, un gruppo che alla democrazia comincia a far paura. Un po’ di dati: durante le prime elezioni politiche del 1948, ci fu un’affluenza del 90% degli aventi diritto. Questo dato rimase più o meno stabile fino al 1983, quando si scese all’88% per la prima volta. Da lì, solo discesa: dall’83% del 1996 all’81% del 2001, fino alla tornata del 2018, che registrò il 72.94% per la Camera e il 73% per il Senato. Le attuali votazioni hanno stabilito un nuovo record: il 63.91% degli aventi diritto, il dato più basso mai registrato alle politiche.
Le elezioni del 2022 ci collocano agli ultimi posti nel panorama europeo odierno, e tra i “grandi Paesi” d’Europa siamo battuti solo dal 47.5% della Francia (dove però le legislative sono percepite come meno importanti delle presidenziali). La regione dove si è votato meno è stata la Calabria, con il 50.78%, seguita da Sardegna e Campania. È storico che al Sud si voti meno del Nord, ma non sono mai stati toccati livelli così bassi.
In questo caso, però, voglio concentrarmi su un solo volto dell’astensione: il mio. Sono ciò che il Libro bianco chiama astenuto involontario. Faccio parte, in particolare, degli 1.9 milioni di persone che per rientrare al luogo di residenza impiegherebbero oltre quattro ore (tra andata e ritorno) attraverso la rete stradale. E che rete stradale: i flussi migratori di studenti e giovani lavoratori spesso vanno dal Sud al Nord e per ritornare al Meridione si deve usufruire di infrastrutture ridicole.
Quasi sempre le regioni sono mal collegate, e tutti noi dobbiamo fare parkour saltando da un treno all’altro, tra un autobus e un traghetto, tra una metro e un aereo. Questo, se i mezzi ci sono: stavolta, per tanti, l’opzione era salire in macchina e perdersi tra autostrade allagate e guardrail inesistenti. Un esodo lungo, scomodo, e dal prezzo esorbitante. Sì, nonostante gli sconti del 60% o 70% proposti da varie compagnie, il conto per chi si trova a macinare chilometri è comunque salato.
Io sono tutto sommato fortunata, devo solo cambiare due autobus e spendere abbastanza poco: se non ci fosse stato un nubifragio, l’avrei fatto senza problemi. Ma tanti ragazzi si sono trovati a spendere tra i 70 e i 180 euro, soltanto per l’andata. Non è accettabile che il voto sia economicamente condizionato: se è necessario pagare per un diritto, allora quel diritto non è più considerabile tale. L’aspetto economico è poi solo la punta dell’iceberg.
Chi lavora nella ristorazione non ha potuto lasciare il proprio posto di lavoro in piena domenica. Chi deve preparare un esame – siamo in piena sessione – non ha potuto prendersi due giorni di pausa. Chi il lunedì è dovuto correre in ufficio o nelle aule universitarie non ha potuto fare un viaggio di ventisei ore nel giro di due giorni. Chi per tutta la settimana si è massacrato di lavoro non ha avuto le forze di sacrificare le sue ore di riposo. E hanno tutti ragione: non è corretto chiedere questi sforzi titanici quando il resto degli italiani deve solo scendere sotto casa.
L’ironia vuole che una delle prime lettere di Io voto fuori sede – comitato che da sempre cerca di attirare l’attenzione sul problema – sia stata inviata proprio a Giorgia Meloni, all’epoca Ministra della Gioventù del quarto governo Berlusconi. Sono dodici anni che i fuorisede cercano di parlare con le istituzioni e dodici anni che non vengono ascoltati.
Nel resto dell’Europa è possibile votare al di fuori del proprio Comune di residenza senza problemi: in Francia e in Belgio i fuorisede votano in anticipo, in Danimarca vengono allestiti seggi ad hoc, in Spagna e in Germania è permesso il voto per corrispondenza. In Italia, con lo SPID, sarebbe ancora più facile. Nel nostro Paese è stata presentata una proposta di legge il 28 marzo 2019, ma è ancora in alto mare. Nel quadro dei principi fondamentali della Costituzione italiana, il voto è tanto un diritto inviolabile quanto un dovere inderogabile di solidarietà politica, eppure non è tra le priorità del Parlamento.
In sala vi starete chiedendo: ma perché i fuorisede non cambiano semplicemente residenza? E se questa cosa si può fare, possiamo davvero parlare di diritti violati? Prima di tutto, molti di coloro che hanno cambiato domicilio lo hanno fatto di recente. Sono matricole fresche, giovani lavoratori da poco assunti, disoccupati che hanno deciso di usare i propri risparmi per volare in città dove c’è lavoro. Le pratiche per cambiare residenza quest’anno sono state chiuse a giugno: è solo a luglio che sono state annunciate le elezioni.
In secondo luogo, ci sono dei vantaggi a mantenere la propria residenza separata dal domicilio. Borse di studio più generose, sgravi e riduzioni fiscali sono concessi agli studenti e le case da affittare sono molto più numerose. Nei centri delle grandi città universitarie, gran parte dei padroni di casa esclude espressamente i residenti o le famiglie negli annunci: per loro, è molto più comodo avere gente che, bene o male, sparirà velocemente. Non si sa mai, magari sale la voglia di fare un bel b&b.
Una delle caratteristiche dell’essere fuorisede è quella di essere transitori. Lo sono i nostri contratti d’affitto, i nostri legami e le nostre prospettive. Nessuno di noi resta in una città troppo a lungo e, anche quando si riesce a trovare un po’ di stabilità, c’è sempre il rischio di un licenziamento, di un cambio di rotta o un’opportunità migliore che appare altrove. Siamo sradicati e la trafila burocratica per ottenere un cambio di residenza è più lunga delle nostre permanenze. Triste, vero?
La realtà è che siamo una generazione precaria e senza un posto da chiamare casa. Non so più quanti indirizzi ho cambiato su Amazon e quanti amici ho sparsi per il mondo. Non appartengo a nessun luogo e nessun luogo appartiene a me. Di conseguenza, non ho potuto spostare l’ago della bilancia né nel paese in cui sono nata né in quello in cui sono finita. Siamo esiliati, forse reietti: non abbiamo più contatti con il nostro passato e non ce li abbiamo con il presente.
Mi sono sentita un fantasma. Senza alcuna possibilità di incidere sul mondo circostante, senza alcuna rilevanza. Non ho potuto neanche scegliere di astenermi, è una decisione che mi è stata imposta. Eppure, io delle radici sento di averle. Sono nelle cose in cui credo e nei valori che ho. Ho una voce e sono stanca che mi venga imposto il silenzio.
Il giorno dei risultati, il nostro giornale è andato controcorrente: invece di un messaggio di disperazione, ne è comparso uno di resistenza. Allora, mi accodo anch’io, sperando che queste elezioni siano uno schiaffo in faccia alla mia generazione. Che l’ennesima presa in giro, l’ennesima delusione, possano accendere un fuoco. La voglia di urlare, di farsi sentire. La voglia di lanciarsi nel cambiamento, perché tanto noi nel cambiamento continuo siamo già costretti a starci. Non abbiamo nulla da perdere: siamo spatriati, siamo esiliati, e allora costruiamoci da soli una nuova realtà.