È stato un modo per continuare a lavorare quando il primo lockdown ha chiuso tutte le attività non essenziali, permettendo alle persone di percepire lo stipendio e alle aziende di produrre. Eppure, quello che noi chiamiamo comunemente smart working, il telelavoro, esiste già da molto tempo e, ai pro che ha dimostrato di avere durante il difficile periodo che il mondo dell’impiego si sta lasciando alle spalle, bisogna bilanciare anche tutti gli aspetti negativi che ne sono conseguiti, effetti inaspettati che hanno svelato le poco nobili intenzioni alla base della sua ideazione.
Se oggi usufruiamo con estrema tranquillità dello smart working è solo grazie alla pandemia, che ha accelerato un processo di digitalizzazione del lavoro che probabilmente avrebbe impiegato ancora molti anni prima di occupare lo spazio che ha invece conquistato in pochissimi mesi. Eppure, se nel telelavoro c’è abbastanza innovazione da poter essere definito il modo di lavorare del futuro, alle sue radici ci sono anche tanti aspetti che di innovativo hanno davvero poco.
I benefici che nascono dal lavoro da remoto riguardano molteplici ambiti della vita personale e professionale degli smart workers. Quelli personali appartengono alla gestione autonoma del proprio tempo, alla possibilità di conciliare più facilmente la sfera lavorativa e quella familiare, gestendo in autonomia le ore di attività e quelle di riposo. Ciò che però, nella teoria, dovrebbe rappresentare un vantaggio, nella pratica, molto spesso si dimostra disastroso. Il risparmio dei tempi di spostamento tra abitazione e ufficio diventa, infatti, una buona ragione per chiedere ai dipendenti qualche ora in più di lavoro, essendo tempo che avrebbero sprecato in ogni caso. Anche il risparmio economico che lo spostamento richiede viene in qualche modo recuperato poiché le utenze normalmente messe a disposizione dal datore di lavoro, con lo smart working, ricadono inevitabilmente sul bilancio del lavoratore.
Si può dunque dire che non ci sia chissà che grande convenienza economica nel telelavoro, quanto invece può essercene in relazione al tempo. Dopotutto, nella società ipermoderna in cui viviamo, ogni cosa diventa sempre più veloce e il tempo sembra un bene più raro e prezioso del denaro. Anche in questo caso, però, si parla di benefici esclusivamente teorici, che si trasformano facilmente in un continuo reinvestimento della propria giornata nel lavoro e nell’incapacità di tenere separate la vita privata e quella professionale. Non è solo l’impossibilità di separare gli spazi fisici – che pure rappresenta un problema di non scarsa rilevanza – ma anche e soprattutto la fine dei confini tra il lavoro e tutto il resto, che vanno sbiadendosi man mano che la professione inizia a permeare ogni aspetto della quotidianità.
Uno studio di qualche anno fa suggeriva agli studenti di non studiare abitualmente in camera da letto. Secondo alcuni psicologi, infatti, il cervello si abitua all’ambiente in cui solitamente viene attivato e, dunque, diventa difficile rilassarsi e smettere di pensare allo studio quando è ora di dormire, perché la stanza ricorda al cervello di restare attivo. Allo stesso modo, allora, il lavoro dovrebbe avvenire in luoghi separati da quelli della vita privata. Ma non tutti – anzi, in verità molto pochi – possono permettersi di adibire una stanza di casa all’esclusivo ruolo di ufficio in cui lavorare. Anzi, il problema degli spazi è forse il maggiore degli svantaggi dello smart working, poiché molte case sono troppo piccole per consentire a ogni abitante di usufruire di uno spazio personale e adeguato.
Uno dei pochi effettivi vantaggi del lavoro da remoto – o di una forma ibrida tra smart working e presenza – è probabilmente la riduzione dell’inquinamento. Che non ci si aspetti, ovviamente, chissà che riduzione a livello di utenze ed energia, per le quali cambia solo l’intestatario della bolletta. Tuttavia, anche solo la riduzione degli spostamenti tra abitazione e lavoro può, in qualche modo, giovare all’ambiente. Prima della pandemia, il mondo era così facilmente connesso ed era così semplice spostarsi da un paese all’altro per pochi giorni, che l’inquinamento causato dai viaggi di lavoro non lasciava respirare il nostro surriscaldato pianeta. Adesso che lo smart working ha dimostrato che molte professioni possono svolgersi con la stessa efficienza anche da remoto, invece, magari qualcosa in questo senso può cambiare.
A ogni pregio, però, corrisponde sempre un difetto perché, se è diventato possibile lavorare senza spostarsi, è anche diventato piuttosto problematico lavorare senza avere alcuna interazione sociale. La socialità è, infatti, un bisogno essenziale dell’essere umano, e non può ridursi solo al tempo libero e allo svago, poiché l’animale sociale per eccellenza ha bisogno che l’interazione permei ogni aspetto della sua vita e ogni attività a cui si dedica. Un lavoro svolto in solitaria, invece, non solo non consente le giuste pause e la leggerezza che lo scambio tra colleghi garantisce, ma comporta una vera e propria alienazione per il lavoratore che, per otto ore, non conosce altro interlocutore che se stesso.
Salute, fisica e mentale, serenità, socialità e diritti dei lavoratori incontrano non pochi ostacoli nell’impostazione che lo smart working ha conquistato nel corso di questi mesi. Eppure, esso non è solo una somma di difetti poiché, potenzialmente, possiede anche molti pregi che, se bilanciati i difetti, potrebbero renderlo davvero il lavoro del futuro. Ciò da cui la maggior parte di questi ultimi dipende, tuttavia, non è la natura stessa del telelavoro, quanto il sistema malsano e disfunzionale in cui è immerso. È il biocapitalismo il vero problema.
Il telelavoro nasce, in realtà, come un modo per sfruttare meglio quella categoria di lavoratori che, per l’impostazione patriarcale della nostra società, ha bisogno di lavorare stando a casa. Esso è nato, dunque, in prima istanza, per non perdere la forza lavoro delle donne che, lasciate a essere le uniche a dover bilanciare lavoro e famiglia, in questo modo avrebbero potuto dare il massimo sia in un campo che nell’altro. Ma allora, superati gli stereotipi di genere, convenuto che a conciliare impiego e lavoro di cura debbano essere sia gli uomini sia le donne e garantito l’accesso al telelavoro a tutti gli impiegati d’ufficio grazie all’accelerata che il Covid ha garantito, il problema dello sfruttamento è risolto? Decisamente no.
Il biocapitalismo è l’applicazione della teoria capitalistica alla vita, ai corpi, alle menti degli esseri umani. Se tutto fa profitto, allora la giornata lavorativa di otto ore non basta. In realtà, quella ripartizione della giornata in tre parti uguali – otto ore di lavoro, otto ore di sonno e otto ore di tempo libero – teorizzata in epoca industriale sulle spalle del proletariato urbano, dovrebbe essere sì superata, ma in modo completamente diverso. Quelle poche avanguardistiche aziende che hanno ridotto la giornata lavorativa a cinque o sei ore, o che hanno ridotto la settimana a quattro giorni feriali, hanno riscontrato non poco successo in termini di produttività e di qualità del lavoro. Eppure, il biocapitalismo che permea le nostre società va da tutt’altra parte.
Le aziende, infatti, hanno bisogno di fruttare quanto più capitale sociale possibile, di possedere non solo otto ore di ogni giorno dei propri dipendenti – e a volte anche molte di più – ma anche delle loro idee, delle loro iniziative e della loro attenzione costante. Non è un caso che le aziende più grandi e di successo siano le stesse che hanno uffici bellissimi e pieni di attività di svago, dal tavolo da ping-pong alle postazioni Playstation, e anche le stesse che organizzano più attività sociali al di fuori dall’orario di lavoro, dagli aperitivi d’ufficio ai viaggi aziendali di – apparentemente – puro svago. Perché ciò di cui hanno bisogno è che la mente dei propri dipendenti lavori per loro anche fuori dall’orario d’ufficio, che abbiano voglia di restare in ufficio per un po’ di tempo in più del necessario e che si sentano abbastanza legati all’azienda da dedicarvi tutte le energie.
Questi meccanismi, apparentemente non collegati a pregi e difetti dello smart working, in realtà ne spiegano i limiti dovuti al sistema tossico in cui esso è immerso. Alla luce di queste considerazioni, infatti, è semplice capire perché nascano polemiche sui datori di lavoro che vogliono pagare di meno i dipendenti che restano a casa, sebbene il telelavoro comporti un risparmio per l’azienda in termini di costi di sede, luce, internet, spostamenti, auto aziendali e buoni pasto. È chiaro perché gli straordinari da casa sono considerati lavoro ordinario, o perché le malattie tendano a sparire visto che a casa si può lavorare anche dal letto.
Così, l’alienazione della mancata socialità lascia il posto allo stress di un orario di lavoro che non finisce mai, il risparmio delle utenze per l’azienda diventa un costo in più per il lavoratore, eppure qualcuno osa anche chiedere di abbassare lo stipendio a chi lavora da casa – al massimo, forse, si meriterebbe un aumento. Il problema, dunque, è veramente lo smart working o la mentalità che tende allo sfruttamento dell’essere umano in ogni sua parte?
Di fronte alla problematica dei cambiamenti climatici tutti gli altri aspetti passano in secondo ordine. Certamente lo Smart dovrà essere regolamentato. Allo stato attuale con il divario occupazionale nord sud penso che molti siano per lo Smart compreso le migliaia di lavoratori che ogni giorno fanno i pendolari tra Napoli e Roma.
Mm