Chiara Ferragni, qualche settimana fa, ha lanciato una coraggiosa testimonianza sui perigli e le difficoltà della vita al CityLife. Sono angosciata e amareggiata dalla violenza che continua a esserci a Milano – scriveva nelle sue storie – ogni giorno ho conoscenti e cari che vengono rapinati in casa, piccoli negozi al dettaglio di quartiere che vengono svuotati dall’incasso giornaliero, persone fermate con armi e derubate di tutto. La situazione è fuori controllo. Per noi e i nostri figli abbiamo bisogno di fare qualcosa. Mi appello al nostro Sindaco Beppe Sala. Milano viene delineata come una città degradata, o – rubo l’analogia a Leonardo Bianchi – come una specie di Gotham City allo sbando, senza nessun Batman a salvarla. Anche i cittadini nelle torri d’avorio percepiscono il pericolo, e si appellano alle autorità invocando controlli e sicurezza.
Sui social, il discorso città/sicurezza sta facendo scalpore. Profili sulla scia di Roma fa schifo – account dedicato a segnalazioni, video e foto di cittadini disgustati dal degrado della propria città – si moltiplicano a dismisura. Ogni telefono è un occhio, pronto a scovare rapine, baby-gang e sporcizia ed esporle al pubblico ludibrio. In realtà, sia il Post che il Corriere della Sera sono stati molto chiari nell’analisi dei dati su Milano: c’è stato un netto calo dei delitti registrati, del -15% rispetto al 2019 e del -29% negli ultimi dieci anni. Non che sia un’oasi di pace e tranquillità, ma non è più la capitale del crimine di un tempo. In aumento invece sono le frodi, le bancarotte, il narcotraffico, il riciclaggio, i crimini finanziari e quelli di mafia. Reati che non ricadono sulla sfera personale del cittadino, ma sono perfettamente integrati nell’economia della metropoli.
Questi traffici, però, sono invisibili. Si svolgono tra le viscere della città, silenziosi e sottili, senza che nessun influencer se ne accorga. Più dei grandi traffici sommersi conta la percezione di sicurezza: rapine e furti con strappo sono molto più visibili, virali, e incidono pesantemente sull’idea che ci facciamo su una città. Un esempio sono gli scippi di orologi di lusso: collezionano milioni di visualizzazioni sui social e le loro immagini sono veicolabili con facilità. Ammetto di aver provato poca empatia dopo aver guardato il furto di un Richard Mille da 700mila euro, ma questi video instillano un’angoscia nella classe media milanese: e se capitasse a me? Se mi sfilassero l’iPhone nuovo o il braccialetto di Pandora per cui ho sacrificato tanto? Per noi e i nostri figli abbiamo bisogno di fare qualcosa.
Va bene, ma cosa? Nelle enormi metropoli dei nostri tempi il controllo diventa più difficile: la polizia non può essere ovunque, non può osservare ogni vicolo. O forse sì? Poco tempo fa, il Comune di Torino ha annunciato la sua prima drone unit: droni controllati dalle forze di polizia. Da un po’ svolazzano sul parco del Valentino, fissando le telecamere termiche su chiunque lo attraversi. Finalmente i cittadini potranno fare jogging in sicurezza, protetti da una sorveglianza costante. Immaginate un’intera città tappezzata di sensori, telecamere, droni: riempire la città di occhi robotici può essere la soluzione giusta? Potenziare lo sguardo delle forze armate, renderle reattive, onniscienti, onnipresenti? In realtà, questo modello è già diffuso, è la smart city.
Ma cos’è la smart city? Se ne parla tanto, spesso a vanvera. Ormai è un franchise, un brand utilizzato per rilanciare qualsiasi città che abbia adottato progetti sostenibili e tecnologici. In realtà, il concetto è più articolato: la città intelligente si basa sull’idea che – attraverso l’implementazione di tecnologie digitali nel tessuto urbano – si possa creare un sistema nervoso in grado di reagire prontamente alle metamorfosi della città. Le informazioni prodotte dall’ambiente urbano, attraverso telecamere e sensori, vengono registrate dalle tecnologie digitali e utilizzate per auto-regolarsi. Un esempio pratico è la metro intelligente, che si adegua all’affluenza registrata mettendo in moto più o meno treni. Oppure, i cassonetti smart, che inviano un segnale al database centrale appena sono pieni: mai più cumuli di immondizia.
Ma cassonetti, lampioni e semafori intelligenti possono essere sfruttati anche da un’altra entità: la polizia predittiva. Si tratta di unità che utilizzano tecniche analitiche per identificare possibili target criminali, per prevenire la commissione di reati futuri e risolvere crimini passati. Questo sistema oracolare legal-tech è stato utilizzato, nei paesi asiatici, sfruttando le enormi quantità di dati estratti dalla smart city. Si tratta di dati relativi a notizie di reati precedentemente commessi, agli spostamenti e alle attività di soggetti sospettati, ai luoghi teatro di ricorrenti azioni criminali e alle loro caratteristiche, al periodo dell’anno o alle condizioni atmosferiche maggiormente connesse alla commissione di determinati crimini.
Non è raro che vengano usate informazioni relative all’origine etnica, al livello di scolarizzazione e alle condizioni economiche dei possibili criminali. Tutti questi dati vengono rielaborati in modo probabilistico, e permettono alle autorità di “predire” chi potrà commettere un reato o dove e quando potrà essere commesso. Queste attività di analisi e mappatura in realtà non sono nuove: da tempo, la polizia concentra le sue risorse in determinate aree geografiche. Ma l’elemento interessante è la reattività: la capacità di analizzare in tempi molto brevi un enorme quantitativo di dati e scoprire dei pattern prima invisibili. L’avvento delle smart city potrebbe determinare l’incorporazione dell’attività di prevenzione dei reati direttamente nell’architettura urbana.
Non solo le strade, i semafori, i marciapiedi e i palazzi conterranno sensori capaci di raccogliere dati, ma potranno anche fornire una risposta immediata e automatica a comportamenti sgraditi. Si potrebbe precludere l’accesso a determinati luoghi a coloro che vengono identificati come pregiudicati o impedire fisicamente a un’auto di compiere effrazioni. Proprio a Milano si usano già software come Keycrime, che però si differenzia fortemente dalle altre esperienze internazionali e che abbiamo scelto di approfondire singolarmente.
Le criticità sono tante: gli algoritmi non sono puri, ma soggetti agli stessi bias di cui li nutriamo. È stato già riscontrato che diversi software di polizia predittiva profilino maggiormente le persone nere rispetto a quelle bianche – stessa storia di sempre, ma in digitale. Inoltre, municipi e commissariati non sono in grado di gestire da soli i database delle smart city. I sistemi centrali, i “cervelli” delle città intelligenti, devono essere necessariamente appaltati alle compagnie hi-tech, in genere le stesse che li creano e li rivendono alle amministrazioni. Sono le uniche a saper gestire la complessità dei big data estratti, e avranno accesso a tutte le informazioni sugli abitanti della città.
Per ottenere sicurezza dobbiamo sacrificare qualcosa: la nostra privacy. Dobbiamo accettare di essere costantemente osservati, profilati, tracciati. Dalla polizia, dalle compagnie, dalle amministrazioni. Nella smart city, gli abitanti della città sono semplici formichine, di cui rilevano solo il numero e gli spostamenti. Non contano le loro opinioni, i loro bisogni o desideri, non sono protagonisti della città intelligente, sono meri consumatori, passivi e obbedienti.
Facciamo un salto a Songdo, Korea. Là dove c’era solo il Mar Giallo, le ruspe hanno scavato, costruito, sono sorte gru e impalcature. Dal nulla, si è deciso di creare una città completamente artificiale: la sua conformazione, le sue piazze, i suoi palazzi, tutto è stato deciso a tavolino. Songdo è la smart city per eccellenza: la tecnologia non è stata innestata su un tessuto preesistente, c’era sin dall’inizio. Songdo doveva offrire tutto ciò che Seul non era: una città senza traffico, senza inquinamento, totalmente hi-tech. E lo è: le strade che connettono i quartieri sono costellate di sensori che misurano l’energia e il passaggio delle auto, quantificandone il numero. I parchi si irrigano da soli e la raccolta differenziata è interamente automatizzata: non ci sono cassonetti, solo tubi.
I dati arrivano a un sistema centrale chiamato U-city, che organizza la città. A questo sistema i cittadini non possono accedere, né interagire con nessun ambito gestionale dei big data estratti. Songdo, per anni, è stata vuota. Città fantasma, la chiamavano. Le telecamere e U-city spaventavano gli abitanti, la mancanza di storia e cultura la rendeva una città sterile e fredda. In un documentario, una donna raccontava che le telecamere a Songdo seguivano e tracciavano una persona anche se decideva di ballare per strada, o se era troppo triste o euforica. U-city è stata programmata per allertarsi a ogni comportamento fuori dalla norma, perché potrebbe condurre a un crimine.
Eppure, la città di Songdo si è riempita. Molti cittadini in realtà apprezzano gli schermi e le telecamere onnipresenti: voglio poter guardare i miei bambini giocare nel parco giochi da casa mia, qui si può fare, è pieno di telecamere. Voglio vedere le auto che entrano ed escono dal mio parcheggio, è il mio parcheggio, non voglio che ci entrino sconosciuti. Viviamo in uno stato di costante terrore verso i nostri simili e la paura supera ogni ragionamento razionale. Grazie a promesse di sicurezza e controllo le smart city stanno attecchendo ovunque, unico baluardo contro il degrado e il pericolo delle metropoli.
Ma rinunciare all’essere padroni delle proprie vite e dello spazio urbano è l’unico modo che esiste per prevenire il crimine? Torniamo a Milano, la nostra Gotham City. Le sue zone periferiche sono povere e abbandonate, mentre il centro è lussuoso ed efficiente. Sì, forse due telecamere al posto degli occhi della Madonnina eviteranno gli scippi sotto al Duomo, e ciò che è marcio in periferia non contaminerà il centro. Ma non verrà cancellato, i problemi endemici della città non si risolvono con la repressione. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio della Caritas Ambrosiana, quattro persone su dieci colpite dalla povertà durante la pandemia non sono ancora riuscite a uscire dalla situazione di difficoltà, e il 41% di coloro che avevano chiesto aiuto alla Caritas per la prima volta nel 2020 non è uscito dallo stato di bisogno.
Scippi e rapine non sono che il sintomo di una malattia più grave, profonda e radicata. L’unico modo per prevenire i microcrimini senza ghettizzare e profilare gli abitanti delle periferie è agire sulle disparità delle fasce sociali. Nessun oracolo algoritmico, solo una responsabilizzazione del soggetto pubblico verso le periferie, le zone ghettizzate, le baraccopoli. Si tratta del metodo di contrasto della criminalità più efficace e a lungo termine: i dati da raccogliere sono lì, in periferia, e devono servire per aumentare i servizi, le iniziative, l’assistenza. La tecnologia deve aiutarci a essere più attenti e sensibili alla sofferenza delle città e degli ecosistemi, e non a nasconderli sotto al tappeto.