Slur. So cosa state pensando: ecco l’ennesimo termine di cui non avevamo affatto bisogno. Se ci si ragiona su, però, il fatto che qualcosa che in realtà abbiamo sempre usato e continuiamo a usare prenda un nome non dev’essere sinonimo di confusione ma di consapevolezza. Chiamateli come preferite o non chiamateli affatto, se ciò è motivo di così tanto disagio, l’essenziale è comprendere di cosa stiamo parlando.
Cosa sono gli slur? Perché li utilizziamo continuamente nella nostra quotidianità senza rendercene neppure conto? Uno slur è essenzialmente una parola detta a mo’ di insulto o comunque in chiave dispregiativa che fa riferimento a un’intera categoria di persone. Non si tratta pertanto di una comune parolaccia, bensì ha valore simbolico, è un’offesa collettiva allo scopo di sminuire, di declassare il gruppo a cui si allude rispetto a uno standard di normalità che la società ha stabilito nel tempo. Esistono, perciò, vari tipi di slur a seconda delle categorie, le cosiddette minoranze: abbiamo, tra i più noti, gli slur sessisti (parole come femminuccia o tr**a), omofobi (f-word), razzisti (n-word), abilisti e così via.
Negli ultimi tempi, questo tipo di espressioni è stato oggetto di svariati dibattiti in più branche del sapere, quali, ad esempio, filosofia del linguaggio, politica, linguistica, diritto ed etica. Ma è anche all’ordine del giorno all’interno dell’opinione pubblica, come successe l’estate scorsa nella vicenda riguardante il tennista Fabio Fognini, durante le Olimpiadi di Tokyo. I quarti di finale non stavano andando proprio alla grande per Fognini così, a causa dei ripetuti errori, questi si autodefinì con la f-word. Inutile dire che le critiche, provenienti dai social e non solo, furono innumerevoli. Fognini si è in seguito scusato e la faccenda si è conclusa lì, ma ciò dimostra l’enorme rilevanza da un punto di vista sociale degli slur e la nostra quasi inconsapevolezza verso qualcosa che, pur senza intenzioni maligne, fa parte dei retaggi culturali di chiunque.
Quante volte vi sarà capitato di sentire, o proprio di pronunciare, frasi come oggi ho lavorato come un ne**o, oppure guarda che femminuccia di fronte a un uomo che, magari, si commuove per un film? È all’ordine del giorno. Se fino a non molto tempo fa era consuetudine di massa usare tali termini con accezione negativa, oggi sono purtroppo rimasti nello slang di molti, eppure stiamo pian piano imparando a riconoscerne la dannosità. È uno dei tanti risultati del politically correct, un modo di esprimersi che cerca di essere il più inclusivo e il meno discriminatorio possibile, una piaga dell’epoca moderna secondo molti poiché facilmente travisabile, che porta al classico non si può dire più niente di cui abbiamo già parlato. Ma non è che forse, fino a ora, si è detto sempre tutto e senza un briciolo di empatia?
Sì, perché uno slur, a differenza di una semplice parolaccia che lascia il tempo che trova, presuppone pregiudizi omofobi, xenofobi e così via, ghettizzando e mancando di rispetto a un’intera comunità che, di per sé, non avrebbe nulla di negativo. Perché un uomo dovrebbe offendersi se viene definito omosessuale? Eppure, la frase, ancora oggi, mira proprio a questo e viene a sua volta percepita in questo modo, come il più grande vilipendio della vita. E provate a indovinare qual è l’unica categoria che non possiede uno slur di riferimento? Esatto, il sesso maschile eterosessuale, bianco, cisgender, senza disabilità. Il motivo è molto semplice. La nostra società patriarcale si basa sul concetto della virilità sopra ogni cosa e sulla sua ostentazione e tutto ciò che si trova fuori da questo concetto è meno, non abbastanza, inferiore. Gli slur vogliono ricordare quali sono i ruoli di potere, cosa è ok e cosa no. Probabilmente Fognini, tornando al nostro esempio, ha parlato senza pensare ma il senso alla base di una frase del genere è proprio questo: essere gay vuol dire considerarsi meno uomini, dunque non dei vincenti. L’attenzione per gli slur da parte dei linguisti è maturata negli ultimi quindici anni, all’interno di un linguaggio definito comunemente hate speech, cioè espressioni di odio e intolleranza verso individui appartenenti a una categoria sociale determinata da genere o orientamento sessuale, etnia, religione o altre minoranze.
Esiste, tuttavia, un metodo per rovesciare la situazione ed è quello della riappropriazione di tali termini. Ciò significa riabilitarne l’uso e il senso, di modo che non risultino più un’offesa e i soli in grado di farlo sono proprio gli appartenenti alla categoria a cui ci si riferisce. Essi riprendono il controllo dell’espressione, alterandone il significato e usandolo in maniera anticonvenzionale e non dispregiativa all’interno del gruppo stesso, generando un sentimento di solidarietà comune. Fare ciò non è facile né immediato, soprattutto per la carica denigratoria di certi epiteti tramandata con forza nel tempo, ma può essere una soluzione. Fra gli esempi più celebri, l’uso del termine nigger o nigga usato in senso amichevole, goliardico, tra soli afroamericani, gli unici a potersi chiamare così reciprocamente, proprio perché accomunati dalla stessa storia di discriminazione.
Allora si può star qui a ripetere che si sta esagerando, che si tratta di un insulto come un altro, che ognuno è libero di parlare come gli pare. No. Perché si sbuffa dall’alto del proprio privilegio. Il privilegio di non subire mai certe cose, l’arroganza di chi dimostra di non aver capito nulla semplicemente perché il problema non lo tocca personalmente. Dimenticandosi che le parole non sono solo parole ma raccontano storie ben più complesse. Parole dall’incombente peso sociale, emotivo e culturale che, talvolta, feriscono più dei proiettili.