Carcasse di automobili circondate dal deserto, autobus in disuso adibiti a dormitori, sculture di vecchi pneumatici o televisori rotti. Non è un’allucinazione, né il set di un film post apocalittico. È Slab City, la città “invisibile”, uno dei luoghi più assurdi, enigmatici e suggestivi degli Stati Uniti d’America.
Invisibile, sì, poiché si tratta di un villaggio anzi, più propriamente, di un accampamento abusivo, abitato da individui che hanno scelto di condurre una vita lontani dalla civiltà, di rigettare qualsivoglia norma sociale moderna. E di creare un mondo a parte.
Se cercate Slab City – anche detta The Slabs – sulle cartine o sui GPS, state pur certi che non troverete nulla. Quasi come se ce la mettesse tutta per non farsi trovare, non esistono indicazioni. Siete lì, nel sud-est della California e state percorrendo quegli enormi stradoni senza fine, circondati unicamente dal deserto. L’ultima stazione di servizio è stata superata da un pezzo, motivo per cui è bene fare un buon rifornimento di acqua, in particolar modo d’estate, dove le temperature sfiorano senza remore persino i 48 gradi. Il paese più vicino è quello di Niland mentre, a una decina di chilometri di distanza, è possibile visitare le rive del Salton Lake, il più grande lago californiano, celebre, purtroppo, per essere così tossico da rendere la sua spiaggia un inquietante cimitero di ossa di pesci.
Ed ecco che una moltitudine di rocce dipinte di mille colori appare all’orizzonte. Slab City si presenta come un accampamento sperduto nel quale posteggiano roulotte, tende, autobus, baracche di legno costruite alla buona; gli abitanti sono per lo più nomadi, hippie, anticonformisti, nullatenenti. Ciò che tuttavia colpisce, quasi turba inizialmente, è un angosciante silenzio, una desolazione dovuta ai pochi residenti permanenti – i cosiddetti Slabbers – rimasti anche durante le torride estati.
Tutto ebbe inizio negli anni Quaranta, quando in quei luoghi fu costruito il Camp Dunlap, base militare americana attiva durante la Seconda guerra mondiale, poi smantellata nel 1956. Durante gli anni Ottanta, il villaggio ottenne il suo maggior successo, diventando meta prediletta di hippie, pensionati e chiunque desiderasse allontanarsi dal trambusto delle grandi città. Persone in fuga dalla società ma anche emarginati, soli al mondo, poveri o dal passato burrascoso riportano alla mente l’atmosfera di Nomadland, miglior film agli Oscar di quest’anno. In generale, persone che proclamano il culto della libertà e della ricerca di se stesse, che vivono di donazioni, rifiutano l’attaccamento ai beni materiali e non si sentono rappresentate da alcuno Stato.
È l’anarchia, infatti, a capeggiare. L’abusivismo è tollerato ma si tratta di una realtà non riconosciuta né tutelata dal governo americano. Non esistono regole o leggi, non c’è tecnologia o qualsiasi tipo di servizio. Niente riscaldamento e aria condizionata poiché non c’è elettricità – se non tramite l’utilizzo di pannelli solari o qualche generatore autonomo alimentato a benzina – e per l’acqua si ricorre a una cisterna comune. Gli Slabbers hanno persino inventato un personale sistema di gestione dei rifiuti.
L’assenza di norme che regolino l’ordine comune fa sì che si possa incappare in brutte diatribe culminanti addirittura in sparatorie o violente ripercussioni. Situazioni però sporadiche, in quanto il clima vigente è di profonda quiete e tolleranza. Esiste una biblioteca comune, un giardino di sculture, un cimitero, uno skate park e negozietti di manufatti. L’area attorno è costellata di rottami, carcasse di autoveicoli e persino di un aereo, spazzatura trasformata in opere d’arte, manichini addobbati in modo stravagante, sculture di teste di bambole che conferiscono al villaggio un’aura tra l’horror e il meraviglioso.
Il simbolo di Slab City è Salvation Mountain, una collina artificiale composta di materiali di scarto e variopinta con pittura acrilica, sulla quale spiccano messaggi e simboli dedicati a Dio e all’amore universale – tutto il villaggio ne è pieno – come una sorta di luogo di culto. Si trova all’ingresso del villaggio ed è stata realizzata in oltre vent’anni da Leonard Knight, artista folk visionario ex veterano della guerra in Corea, scomparso nel 2014.
L’autenticità di Slab City rischia, però, di essere corrotta a causa del successo sempre maggiore che sta assumendo nel corso degli anni. Alcune tende vengono addirittura messe a disposizione per turisti e visitatori, sempre più numerosi. Fondamentale per la sua conoscenza al mondo è stato sicuramente il libro di Jon Krakauer, Nelle terre estreme, e il film del 2007 Into the Wild – Nelle terre selvagge, regia di Sean Penn, nel quale sono state riprese alcune strade e a cui hanno partecipato anche alcuni abitanti del villaggio. Non si risparmiano neppure i videogiochi: l’accampamento compare persino nel noto GTA V.
Un posto, dunque, tra sogno e realtà, una città che non esiste ma che, una volta visitata, sa farsi ricordare per sempre. L’ultimo luogo libero d’America, com’è scritto all’ingresso.