La primavera araba si è tramutata, nella terra del Vicino Oriente, in un inverno freddo come quella guerra che non è mai finita. Quello che ci era stato presentato come un conflitto civile nel marzo del 2011, infatti, si è rivelato – o, forse, lo era da sempre – un ennesimo scontro tra Stati Uniti e Russia, storicamente su due fronti diversi e, ancora una volta, nelle mani di personaggi affatto rassicuranti quali Donald Trump e Vladimir Putin.
Poco dopo le 3:00 della notte tra venerdì e sabato scorso, i cieli di Homs e Damasco si sono illuminati dei missili che USA, Francia e Regno Unito hanno congiuntamente lanciato per intimare lo stop dell’utilizzo di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad.
Da alcuni giorni, infatti, i giornali di tutto il mondo stavano riportando la notizia di un attacco di natura chimica a Douma, nella zona a est della capitale siriana, da molti – tra cui gli attivisti anti-governativi e gli americani – attribuito, come già in passato, al discusso Capo del Paese, ma rigorosamente smentito dallo stesso Assad e da Putin, suo alleato, nonostante le prime immagini delle presunte vittime stessero iniziando a circolare in rete. Un attacco che, seppur non ancora accertato, ha scatenato ben presto la reazione della Casa Bianca e delle sue fedeli sostenitrici, Parigi e Londra, nelle persone di Emmanuel Macron e Theresa May, ai quali è bastata appena una settimana per ribadire la loro contrarietà ad azioni simili, passando da parole piuttosto bellicose ad altro fuoco.
I missili occidentali, infatti, non hanno fatto attendere la loro partenza, colpendo un sito di ricerca di Damasco, probabilmente legato alla produzione di armi chimiche e biologiche, un deposito a ovest della città di Homs e, più a nord, un’importante postazione militare del regime siriano. «Non c’erano alternative all’uso della forza», ha affermato la Premier inglese Theresa May. «Non vogliamo rovesciare Assad, ma fermare l’uso di armi chimiche». L’azione, comunque, è risultata mirata e piuttosto calibrata, come a voler dimostrare, almeno apparentemente, che nessuna delle parti tiratesi in causa volesse scatenare un conflitto ancor più grande di quanto già non lo fosse e, soprattutto, l’ira funesta del Presidente sovietico, dichiaratosi pronto a rispondere in qualsiasi momento, sebbene i francesi e non solo abbiano rivelato – al contrario degli americani – che l’inquilino del Cremlino fosse già stato messo al corrente dell’imminente attentato per assicurargli che nessuno dei suoi soldati fosse preso di mira.
Intanto, solo martedì, gli uomini dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) hanno provato a fare il loro ingresso a Douma per verificare quanto e se abbia realmente avuto luogo in questo mese di aprile, pur scoprendosi ben presto bersaglio di colpi d’arma da fuoco che ne hanno rallentato le indagini. Stando alle prime ricostruzioni, in particolare a quella pubblicata da Bellingcat, un sito di giornalismo britannico, le sostanze chimiche avrebbero colpito i civili in due occasioni nello stesso giorno: la prima intorno alle ore 16:00, ferendo quindici persone, la seconda alle 19:30 circa, uccidendone cinquantacinque e ferendone centinaia. La Francia, inoltre, ha reso noto un documento in cui spiega il motivo per il quale ritiene che, senza alcun dubbio, un attacco chimico è stato condotto contro i civili a Douma e che non esiste altro scenario plausibile che si sia trattato di un’azione delle forze armate siriane nell’ambito di un’offensiva globale nei confronti della Ghouta orientale.
Che quest’ultimo sia vero o meno, gli attacchi chimici ai danni della popolazione non sono mancati nemmeno negli anni scorsi, quando prima Obama – tiratosi indietro – e lo stesso Trump poi – meno dubbioso del suo predecessore nel prendere l’iniziativa – avevano condannato e avvisato Assad di probabili ripercussioni. A tal proposito, dopo un imbarazzante silenzio, anche il Premier uscente Gentiloni ha scelto di confermarsi al fianco della Casa Bianca, pur sottolineando di aver chiarito agli alleati la nostra contrarietà a una escalation e l’impossibilità di giungere alla fine del conflitto solo con l’uso della forza e l’idea di cacciare “manu militari” il dittatore Assad. L’ex Primo Ministro ha aggiunto, quindi, di voler sfidare la Russia a contribuire con Stati Uniti, Iran ed Europa alla soluzione negoziale a questa situazione, aprendo al dialogo ma sottolineando fermezza.
Mentre la verità fatica a venir fuori, però – e, a dirla tutta, nemmeno crediamo che ciò accada –, ben ha scritto la giornalista Jenan Moussa in un tweet sul suo profilo ufficiale: L’Occidente può dire di avere agito. La Russia può dire che il bombardamento è stato minimo e che non ha bisogno di reagire. Entrambe le parti hanno salvato la faccia. Gli unici che, invece, proprio non riescono a salvarsi sono i civili siriani che da tempo immemore vivono una guerra che non avrà facilmente fine. I morti, nelle strade del Paese, non si contano più, tante sono le macerie che ne rendono difficile il ritrovamento. Alcune stime parlano di oltre cinque milioni e mezzo di rifugiati nei territori limitrofi, sei milioni di sfollati e tre milioni di persone che vivono in zone sotto assedio e, quindi, difficilmente raggiungibili. Le vittime, invece, secondo l’Osservatorio dei diritti umani in Siria, sarebbero circa 465mila. Ogni minuto che passa, anche di più.
È difficile dire oggi cosa accadrà già nelle prossime ore. Le pagine dei libri di storia che studieranno i nostri figli sono adesso il (non) vivere quotidiano di milioni di persone, le notizie che, durante i pasti, ignoriamo al telegiornale. Mentre i grandi giocano ancora a spartirsi il mondo, però, la Siria e il suo popolo stanno a poco a poco scomparendo. Pensare di sfuggire al senso di colpa per uno sterminio annunciato è solo la conferma di quanto disumana sia ormai questa umanità.