Ci sono cieli che hanno tutti lo stesso colore, albe che non si fanno mai tramonto, bambini che nascono già adulti. Primavere che, in realtà, non sono altro che lunghi, interminabili inverni. Come in Siria, dove quello che era stato presentato come un risveglio della popolazione locale si è confermato, invece, l’ennesima partita a Risiko, una guerra fredda che Stati Uniti, Russia e alleati non hanno alcuna intenzione di concludere.
Così, lo scorso 15 marzo, il Paese arabo è entrato nel suo nono anno di conflitto, vittima dal 2011 di un interesse politico ed economico internazionale che vede nelle sue terre numerose opportunità future, con la complicità, su tutto, della strategica posizione geografica che le rende appetibili a Oriente come a Occidente. Trump, Putin, Netanyahu, Erdogan, persino Macron e May: i Capi di Stato delle potenze mondiali hanno tutti gli occhi – e le armi – puntati sui terreni bagnati dall’Eufrate, con più di mezzo milione di morti che non hanno nemmeno una coscienza a cui aggrapparsi.
La guerra siriana, apparentemente iniziata come civile ma ben presto trasformatasi in qualcosa di ben più grande – Iraq e Afghanistan insegnano –, infatti, negli anni ha portato alla distruzione totale di una nazione dalla storia secolare, oggi quasi del tutto scomparsa, e a un vero e proprio massacro, causando non solo un numero enorme di vittime ma, anche, la più vasta crisi di rifugiati nel mondo, con stime che parlano addirittura di 5.6 milioni di perseguitati, più di 6 milioni di sfollati interni e di 3.9 milioni di persone che vivono in zone sotto assedio o ospitate dai Paesi confinanti ma comunque coinvolti dalla crisi. Indelebili le immagini diventate virali dei campi profughi in Libano – i pentastellati sostenevano fossero le tendopoli dei terremotati del Centro Italia –, dove in decine di migliaia hanno patito il gelo dei mesi appena trascorsi. Si stima, inoltre, che l’83% dei siriani viva sotto la soglia di povertà e che la popolazione sia sempre più vulnerabile a causa della perdita o dell’assenza di mezzi di sostentamento, per un totale di 11.7 milioni di persone che necessitano di una qualche forma di assistenza umanitaria e di protezione. Malnutrizione, malattia e disabilità nemmeno si quantificano più. Tra chi soccombe, ovviamente, anche tanti, troppi bambini.
A tal proposito, a lanciare l’allarme – l’ultimo di una lunga serie – è stata Save the Children, l’organizzazione internazionale dedita alla tutela dell’infanzia e operante in più di 120 Stati nel mondo, che ci informa che in Siria la metà dei minori è cresciuta non conoscendo altro se non la guerra. Un’intera generazione che, quindi, non sa cosa voglia dire svegliarsi in un Paese normale.
Stando all’indagine svolta nei governatorati di Idlib, Aleppo, al-Raqqa e al-Hassakeh, vale a dire le zone più colpite dagli scontri, dall’inizio del conflitto sono nati più di 4 milioni di bambini per i quali bombardamenti, distruzione e morte sono soltanto alcune delle parole apprese con più facilità. Le prime, forse, dopo mamma e papà, quando e se questi riescono a sopravvivere. Più di 5 milioni di infanti, inoltre, hanno bisogno di aiuti umanitari. La maggior parte di essi, infatti, vive in aree dove i servizi di base sono praticamente inesistenti e le infrastrutture decimate o completamente assenti, al punto che un terzo dei più piccoli non va più a scuola – o non ci è mai andato – perché costretto a lavorare o a sposarsi precocemente a causa dell’alta povertà e della disoccupazione dilagante che hanno distrutto famiglie e minato la stabilità dell’intero tessuto sociale. Come se non bastasse, 2.5 milioni delle giovani vittime del conflitto sono sfollate internamente. Non a caso, più del 30% dei minori si sente angosciato, solo, insicuro, e spesso lo è per davvero. Soprattutto nell’atrocità.
Non bastano le bombe, le case distrutte, le scuole costantemente sotto attacco. Non basta non conoscere la pace, vedere i propri amici partire o morire, non basta separarsi – per sempre – dalla propria famiglia. Per i bambini siriani, la guerra è anche molto altro. È violenza psicologica, è violenza fisica – come quella perpetrata su più di 1200 minori soltanto dal 2018 a oggi –, è stupro, è minaccia, è mutilazione: violazioni gravi che, tuttavia, è difficile, se non impossibile, stimare con certezza. A dichiararlo, l’ONG Human Rights Watch e l’OHCHR, la commissione d’inchiesta internazionale indipendente dell’ONU – oltre a Save the Children –, che monitorano anche le condizioni estreme a cui sono costretti i bambini detenuti. Questa violenza, infatti, servirebbe a umiliare, ferire, ottenere confessioni forzate o fare pressioni su un genitore affinché si consegni.
Più di 7mila i bambini uccisi o mutilati, dicono i dati ma è soltanto un’altra stima appena abbozzata. In realtà, le vittime supererebbero le 20mila unità. Tra questi, anche tanti piccoli soldati, arruolati perché in guerra tutto è lecito, basta fare numero, basta arrivare al traguardo, non importa come. L’UNICEF, inoltre,ha segnalato che solo nel 2018 in Siria 1106 bambini sono stati ammazzati nei combattimenti, il più alto numero di pargoli uccisi in un unico anno dall’inizio della guerra: «Questi sono solo i numeri che l’ONU è stato in grado di verificare, ma le cifre reali sono probabilmente molto più alte», ha affermato il direttore generale, Henrietta Fore. «Le mine rappresentano ora la principale causa di vittime tra i bambini in tutto il Paese, con 434 morti e feriti causati da ordigni inesplosi l’anno scorso. Il 2018 ha visto anche 262 attacchi contro le strutture scolastiche e sanitarie, anch’essi a livelli record». E così oltre 2 milioni di ragazzi e ragazze non possono ricevere un’istruzione nel Paese. «Oggi c’è un allarmante equivoco – ha continuato Fore – che il conflitto in Siria stia rapidamente per concludersi: non è così. I bambini in alcune parti del Paese rimangono in pericolo come in qualsiasi altro momento durante gli otto anni di conflitto». Ma la verità, si sa, non sempre veste i panni della comodità.
Altrettanto numerose sono, poi, le denunce raccolte nel rapporto intitolato Voices from Syria 2018 (Voci dalla Siria 2018), pubblicato dall’UNFPA per rendere note le violenze subite da molte donne, soprattutto più giovani, abusate spesso persino dagli operatori delle organizzazioni che lavorano sul territorio per fornire viveri e assistenza di ogni tipo. Quelli che la storia ricorderà come i giusti, gli eroi, i soldati in missione di pace che generano guerra nella guerra, violenza nella violenza, che mentono e uccidono, che condannano per sempre.
«La guerra ha portato via tutto a noi bambini e ci ha lasciato senza nulla, senza istruzione e senza futuro. I miei genitori sono stati uccisi quattro anni fa quando la nostra casa è stata colpita da una bomba. Ho sperato di morire anch’io, ma Dio aveva altri piani. Voglio che la guerra finisca per poter tornare dove vivevo e ricostruire il mio Paese. Non chiedo altro che poter tornare a scuola. Spero che il mondo si accorga di noi e ci aiuti», a raccontarlo è Lina alle telecamere di Save the Children. Ha soltanto 13 anni e oggi vive a Idlib dopo essere scappata dal Ghouta orientale. Conosce la paura, l’atrocità, la perdita, la solitudine. Chiama le cose per nome, persino la morte. Non sa, però, che il mondo al quale chiede aiuto è lo stesso che le ha portato via tutto. Non sa che quella araba non è una primavera, ma soltanto un massacro, una sfida a chi ha il potere maggiore. Non sa che Dio, per la sua gente, somiglia fin troppo a Satana. Perché dei siriani non importa a nessuno, perché ciò che conta è solo la Siria. Perché sulla via di Damasco, in Siria, si fa la storia… E pure il petrolio.