Anni e ancora lì. Nella città ribelle di Binnish, nella provincia di Idlib, un pezzo di muro resiste al tempo, solo tra le macerie di un luogo che non c’è più. Sono trascorsi dieci anni dall’inizio della guerra, la Siria è a malapena lo spettro di quella che fu.
Il triste anniversario è caduto lo scorso 15 marzo, il giorno in cui nel 2011 i venti della primavera araba soffiarono fino a Deraa, poi ad Aleppo e Damasco. Sui muri una scritta: È arrivato il tuo turno, dottore. Quel dottore era Bashar al-Assad, l’uomo che avrebbe vinto due volte. In migliaia, giovani e festanti, affollarono le piazze, un nuovo mondo sembrava possibile. Gli uccelli si stanno radunando, bisbigliavano in segreto, era la loro frase in codice, un canto di libertà soffocato in un lampo dalla furia del regime che ancora resiste. Sono trascorsi dieci anni e niente è andato come previsto. Gli uccelli sono stati massacrati, torturati, arrestati. Qualcuno è riuscito a scappare, qualcun altro non ce l’ha fatta. La primavera non è scoppiata, l’inverno ha ricoperto ogni speranza.
Complice l’internazionalizzazione del conflitto e l’appetibilità di una terra strategica come poche, non c’è bilancio, a distanza di un decennio, capace di rendere davvero l’enormità della tragedia siriana. I numeri, quasi certamente al ribasso e fermi perlopiù a prima della pandemia, raccontano di almeno 560mila persone uccise, più di 6 milioni di profughi, altrettanti sfollati. Circa l’80% della popolazione vive in condizioni di povertà, quella che prima era la classe media è oggi la classe degli ultimi. Per tutti gli altri, invece, per quelli che erano già gli indigenti, ancora non è stato coniato il vocabolo giusto. Molto più che poveri, molto più che ultimi, molto più che invisibili. Nemmeno il COVID ha fermato il contatore della guerra.
Il regime, intanto, resiste al suo posto, anche se in pochi, dieci anni fa, ci avrebbero pubblicamente scommesso. Nel frattempo, molte città non esistono più, completamente sventrate, rase al suolo, depredate persino della loro anima. L’economia locale è peggiore che in qualsiasi altro momento del decennio appena trascorso. La lira siriana ha toccato il minimo storico, il valore degli stipendi è crollato nettamente, il costo delle importazioni aumentato. Soltanto nell’ultimo mese, il 60% della popolazione – avverte il Programma Alimentare Mondiale – ha rischiato di soffrire la fame, il numero più alto mai registrato. Parliamo di 12.4 milioni di persone. Il New York Times racconta delle lunghe file per un pezzo di pita, razionata come il carburante di cui tutti vanno in cerca per cucinare e riscaldare quel che resta delle loro case. Alcune aree ricevono solo poche ore al giorno di elettricità, a volte appena sufficiente per caricare i cellulari o spezzare il buio che avvolge le macerie intorno. Le donne hanno iniziato a vendere i propri capelli, spesso anche il proprio corpo. Con i pochi dollari racimolati acquistano olio combustibile, qualche vestito per l’inverno, magari un pollo con cui sfamare la famiglia ricavandone almeno due pasti. Bashar al-Assad resta, tuttavia, sereno. Non legalizzerà i matrimoni gay, ripete in continuazione, come se questo servisse a nutrire il popolo che si appresta a schiacciare ancora a lungo.
Attende le elezioni Assad. Lui, il figlio del Leone di Damasco che nemmeno avrebbe dovuto salire al potere e che, invece, a vent’anni dal suo insediamento e a dieci dai primi vagiti della primavera araba, è ancora lì, a difesa della sua jumlukiya, come qualcuno si spinge a chiamarla, a metà tra la jumhuriya (repubblica) e la malikiya (monarchia). In realtà, una vera e propria dittatura. Attende le elezioni, ma tutti sanno che saranno fasulle come fasulla è stata finora la presa di posizione degli organismi internazionali a tutela di un popolo vittima di diaspora e sterminio.
Campi di concentramento, arresti arbitrari, prigioni di tortura sono una prassi ormai consolidata e, sebbene il governo continui a negarli, anche in questo caso i numeri – quelli più o meno ufficiali – parlano chiaro: circa il 90% delle sparizioni registrate dalla rete siriana è legato alla detenzione governativa. Oggi lo dimostrano persino i dossier che confutano come Assad sia a conoscenza di quanto succede nelle segrete del Paese. I documenti, firmati da alti funzionari della sicurezza, compresi i membri del comitato centrale per la gestione della crisi, riferiscono di detenzioni di massa e atrocità, torture e condizioni igienico-sanitarie precarie, di morti da camuffare e cadaveri trascinati via dagli agenti. Ed è nell’ambito di queste indagini che, poche settimane or sono, un tribunale tedesco ha condannato a quattro anni e mezzo Eyad al-Gharib, ex uomo dei servizi segreti siriani, per complicità in crimini contro l’umanità. Una condanna blanda visto il capo d’accusa, ma cruciale perché è la prima a sancire la violazione dei diritti umani nel Paese mediorientale. Ad aprile è atteso il verdetto nei confronti di un altro imputato, anche lui ex ufficiale dell’intelligence di Damasco arrestato in Germania.
Ciò che succede a Idlib, Aleppo o Raqqa non è mai stato un mistero: i sopravvissuti, qualche fotografo coraggioso e le organizzazioni non governative lo testimoniano tutti i giorni e tutti i giorni nulla si muove, se non quei tanti, troppi costretti alla fuga. Come nel marzo del 2020, quando per fare dispetto al Vecchio Continente Erdoğan ha aperto le frontiere. Soltanto poche settimane prima, le Nazioni Unite avevano parlato di circa 900mila persone, tra cui centinaia di bambini, in marcia nel cuore del gelo siriano per sfuggire all’offensiva implacabile di Bashar al-Assad. Giunte al confine greco-turco, però, hanno trovato la polizia ad attenderle. Molti erano a malapena dei ragazzini. Molti non avevano mai pronunciato nemmeno la parola mamma.
È per questo che la chiamano la guerra dei bambini, quella siriana, la guerra di quei 12mila infanti uccisi o feriti in appena un decennio. Uno ogni otto ore. Anche questo, però, è un numero al ribasso. In realtà, le vittime supererebbero le 20mila unità. Per almeno 5 milioni di loro, la parola guerra è stata la prima che hanno conosciuto. Sono quelli nati dal 2011 a oggi, quelli per i quali la devastazione è normalità, la morte ha un volto talmente familiare da confonderlo con la vita. In troppi, sotto i cinque anni, soffrono di ritardi nello sviluppo a causa della malnutrizione cronica. In 6.2 milioni rischiano di restare senza cibo. In 6mila, o forse più, sono stati reclutati nei combattimenti. Solo lo scorso anno, 7 su 10 hanno preso parte attiva al conflitto, 9 attacchi su 10 hanno visto la distruzione delle scuole. Perché non basta negare loro il presente – con, a oggi, quasi 4 milioni di mancati studenti –, a questi bambini va negato il futuro.
Per loro, la guerra è anche molto altro: è violenza psicologica, stupro, mutilazione, minacce. Violazioni gravi come gli abusi subiti da molte donne, soprattutto giovani, spesso seviziate persino dagli operatori esteri in cambio di viveri e assistenza di ogni tipo. La storia li ricorderà come i giusti, gli eroi, i soldati in missione di pace. Avranno persino una medaglia al valore. Il rapporto Voices from Syria 2018, invece, li ha già bollati per quello che sono.
E se possiamo quantomeno abbozzare i costi umani ed economici delle politiche della comunità internazionale, più difficile è concretizzare i costi del non intervento. Come quello deciso dal Nobel per la Pace Barack Obama nel 2013, quando lasciò che Assad usasse armi chimiche contro la popolazione. Lo avrebbe rifatto nel 2017. Gas sarin e bombe al cloro avrebbero condannato migliaia di siriani. Tutti avremmo assistito inermi – persino indifferenti – alle immagini di corpi incapaci di respirare, parlare, sbattere le palpebre, chiedere aiuto. Incapaci persino di gridare il proprio dolore. E ancora succede.
Nell’ultimo anno, alla guerra e alle devastazioni si è aggiunto il COVID-19. Nel nord-ovest del Paese, ricorda Save the Children, da marzo scorso sono arrivati soltanto quattro respiratori e predisposti 64 posti di terapia intensiva in più, portando così il totale a 157 respiratori e 212 letti. Sono almeno 13 milioni, però, le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria. Intanto, nonostante si racconti che la guerra, in Siria, stia per volgere al termine, a fine febbraio, a ridosso del confine iracheno, il solito raid americano – il primo del neo Presidente Joe Biden – ha illuminato la notte in risposta agli attacchi contro il personale USA e della coalizione in Iraq. Nella stessa notte, i versi di Nizar Qabbani scaldavano i cuori di due innamorati: Amami… lontano dalla terra della repressione, lontano dalla nostra città sazia di morte.
Sono trascorsi dieci anni. Assad continua a regnare.