Silvia è libera. E non c’è notizia più bella, non c’è virus che possa turbare la gioia del suo rientro a Roma, non c’è odio sovranista che riesca a frenare le lacrime di commozione che riempiono gli occhi di chi l’aspettava, come la sua mamma, il suo papà, il suo quartiere, tutti noi.
Dopo diciotto mesi di prigionia tra il Kenia – dove era stata rapita nel novembre 2018 – e la Somalia, Silvia Romano è tornata a casa, liberata dall’intelligence italiana con la collaborazione dei servizi turchi e somali, un’operazione straordinaria che infonde gioia e speranza, una buona notizia che spazza via i titoli dedicati all’emergenza coronavirus dalle prime pagine di tutti i giornali almeno per qualche ora. Una boccata d’aria pulita.
Un anno e mezzo di silenzi, squallidi giochi di ruolo recitando la parte che la propria bandiera politica impone, 537 giorni senza verità ma colmi di tanta rabbia e tanto veleno, come quello prontamente riversato sui social dai sostenitori delle compagini che amano vestirsi del tricolore ad uso e consumo. Perché non è bastato essere figlia di questo Paese, cittadina della Milano che tutto può: Silvia portava – e porta – con sé la gentilezza della solidarietà, l’intelligenza della misericordia, tutto ciò, dunque, per cui il motto prima gli italiani per quelle come lei non può valere.
E, invece, Silvia è libera, Silvia è tornata a casa. Sorella di ognuno di noi, amica di ciascuno che è stata in grado di aiutare anche solo attraverso un piccolo gesto, in terre lontane che soffrono pene che l’Occidente gli impone, un prezzo da pagare per essere al mondo, ma dalla parte sbagliata. La ventiquattrenne volontaria per Africa Milele (che opera nel Paese africano su progetti di sostegno all’infanzia) aveva deciso di dedicare ai bambini del continente nero, il continente dimenticato, il senso della propria esistenza. E tutto ciò ha reso la sua assenza ancor più pesante da sopportare.
Sto bene. Non vedo l’ora di tornare in Italia. Pare siano state queste le sue prime parole, ieri, diramate dalla stampa in seguito al tweet del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Silvia non aspettava altro che tornare nel suo Paese, quella stessa nazione, però, che durante i mesi del suo rapimento e ancora in queste ore, ha dato e sta dando prova di quanto non meriti tanta affezione, a partire proprio dai nostri colleghi, anche delle testate più illustri.
Non un quotidiano, infatti, nella giornata di ieri – mentre la ragazza atterrava all’aeroporto di Ciampino – mancava di sottolineare la veste africana che indossava sorridente, di fare illazioni sulla propria fede, in un’eventuale (e ovviamente deprecabile) conversione all’Islam o, peggio, non tentava di ipotizzare a quanto ammontasse il prezzo di quelle immagini di gioia e bellezza, tra le braccia dei suoi familiari.
Per tanta infamità disposta alla mercé di chi altro non cerca per alimentare la propria propaganda dell’odio, la politica – nelle figure di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio – ha invece recitato la parte che le competeva, in secondo piano, basso profilo e senso delle istituzioni. Basta, infatti, sorvolare sulla mascherina indossata dal Ministro degli Esteri per notare la differenza con altre scene proposte allo stesso scalo capitolino appena qualche mese fa, quando l’altra metà della maggioranza di governo era formata dalla Lega, e l’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini – in buona compagnia di Alfonso Bonafede – sfoggiava la divisa della Polizia e prendeva la scena ai microfoni, stracciando quanto la Carta Costituzionale prevede in quanto ai diritti fondamentali dell’uomo, anche di un detenuto, un criminale, com’era Cesare Battisti.
Ad accogliere Silvia Romano è un popolo prigioniero dell’odio e dell’individualismo, gente spaesata e soffocata dai confini della propria repressione. Al contrario, lei, figlia del mondo libero, finalmente senza catene, ha già dimostrato di non aver bisogno di confini a cui delimitare la sua appartenenza. Silvia è libera. Silvia è tornata a casa.