Ci sono voluti quattro anni di iter parlamentare, oltre a decenni di dibattito acceso e di polemiche, soprattutto da parte delle destre, prima di arrivare all’approvazione di una legge sul reato di tortura. La misura promulgata in via definitiva alla Camera – con il voto favorevole della sola maggioranza – non pare, tuttavia, particolarmente soddisfacente, presentando dei profili di debolezza. Del resto, siamo abituati nel nostro Paese a scelte di compromesso da parte del legislatore sui temi dei diritti. Amnesty International parla di una legge carente, soprattutto per quanto attiene i tempi di prescrizione – vale a dire il periodo oltre il quale un reato si considera estinto – che rimangono ordinari. Anche l’Associazione Antigone, dal canto suo, esprime perplessità su molteplici aspetti. Innanzitutto, per Antigone, vi è una mancata configurazione di reato proprio – nel senso di un delitto espressamente riferito ai pubblici ufficiali – e, inoltre, risultano ambigue le parti che richiedono una pluralità di condotte per la commissione del crimine e la verificabilità del danno psicologico cagionato. Il sospetto è che si voglia essere poco incisivi nell’andare a perseguire direttamente quanti, nell’ambito delle forze armate, eccedono con atti di violenza arbitraria e ingiustificata.
Vediamo, dunque, nel dettaglio cosa prevede la norma. Il nuovo articolo 613-bis del Codice Penale punisce con la reclusione da quattro a dieci anni chi con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa […], se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta dunque, come dicevamo, di un reato comune e non proprio, in quanto il diretto riferimento ai pubblici ufficiali viene previsto solo come circostanza aggravante. Difatti, l’articolo in esame sancisce un aggravamento della fattispecie, da cinque a dodici anni di reclusione, se i fatti sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio.
Ulteriori aggravamenti sono previsti, poi, in caso di lesioni personali. Se si tratta di ferite semplici e gravi ci sarà un aumento della pena fino a un terzo, mentre, per le gravissime è previsto un aumento della metà della stessa. Nell’eventualità di una causazione di morte, invece, l’aumento sarà di trent’anni, per quella involontaria, e a durata perpetua, quindi ergastolo, per quella intenzionale.
Proseguendo nella disamina, l’articolo 613-ter applica la reclusione da sei mesi a tre anni al pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio del proprio ruolo, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso.
In ultima analisi, la legge esprime anche il divieto di utilizzare informazioni e dichiarazioni ricavate tramite la tortura, eccetto che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale.
Tralasciando le sezioni dedicate al divieto di estradizione di un soggetto verso paesi dove potrebbe essere sottoposto a torture, e quelle sulla mancata immunità diplomatica per quanti si sono macchiati di tale reato in uno Stato estero, i punti sopra analizzati rappresentano, dunque, in via generale, l’impianto legislativo della novità introdotta nel nostro ordinamento penale.
A ben guardare, effettivamente, il timore è che si sia persa l’occasione per redigere una legge completa, sicura ed efficace. In un paese che ha visto scorrere con tanta facilità il sangue di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi e di tanti altri giovani e non – per giunta accompagnando il tutto con fiumi di parole sterili e spesso offensive per le vittime – una risposta ferrea e incisiva sarebbe stata molto più che auspicabile. In aggiunta, anche la condanna della Corte di Strasburgo all’Italia, per la vera e propria mattanza avvenuta alla Diaz durante il G8 di Genova, non deve farci dimenticare che il rischio di condotte aberranti da parte di chi per primo dovrebbe tutelarci è dietro all’angolo.
Le Forze dell’Ordine rappresentano uno dei pilastri principali sui quali si regge tutta la nostra impalcatura sociale, il loro lavoro è indispensabile e va lodato e premiato. Proprio per tali ragioni è necessario che si traccino dei limiti per arginare quei pochi che, con le loro azioni, sporcano il valore supremo della divisa.
C’è un brano del noto cantautore Michele Salvemini, in arte Caparezza, dal titolo Non siete Stato voi. Ebbene, nel testo, il musicista, tra gli altri, si rivolge anche a quegli agenti che hanno esercitato violenza definendoli uomini boia con la divisa. Basterà questa legge a inchiodare alle loro responsabilità queste pecore nere affermando, a chiare lettere, che sono stati loro a commettere un crimine atroce e che, pertanto, essi stessi non sono Stato? Perché no, Non siete Stato voi.