Lo chiamano il Vallone o Valle dei tumori ed è quella porzione di mondo che si estende tra Agrigento e Caltanissetta, un’area che un tempo era Sicilia e oggi è emigrazione e malattia. Non è poi raro, quando si parla di Sud, che le due parole siano così strettamente correlate, intrecciate tra loro come se, sole, perdessero di senso o efficacia. Eppure, non c’è partenza, dal Mezzogiorno di Italia, che non significhi sopravvivenza. Non c’è partenza che non implichi fuga da disoccupazione, malavita o cancro. La ricerca disperata di un’opportunità come unica via di uscita. È sempre così da noi, e lo è anche in Sicilia, la punta di uno stivale rotto ma senza ciabattino.
La zona che va da Campofranco a Milena, Sutera e Mussomeli non è – nella narrazione massmediatica – la campana Terra dei Fuochi, tantomeno la tarantina ILVA, ciononostante registra un’incidenza tumorale che supera le stime del 43%. Una percentuale che aumenta se si considerano le neoplasie ematologiche (108%) e quelle del polmone (69%). «Ogni famiglia, qui, ha almeno un caso di morte per tumore», denunciano i ragazzi che hanno scelto di restare nella speranza, attiva, di cambiare le cose. Insieme hanno costituito comitati e associazioni, con l’aiuto dei pochi rimasti a popolare l’entroterra siciliano raccolgono fondi per fare ricerca e scoprire ciò che le istituzioni tacciono da sempre. Come Emanuele Quarta, fondatore di Basta Tumori, che a Campofranco ha misurato il livello di radioattività – ben al di sopra della soglia di attenzione (0.790 microsiviert) – nei pressi dell’ex Montecatini, poi Montedison, oggi un ecomostro di ferro e amianto abbandonato a se stesso, al tempo e all’incuria di chi non ha alcun interesse a smantellare un mattatoio di circa 30mila metri quadrati. Paradise ha inciso qualcuno sul muro a pochi passi, verso la stazione. Una strana beffa del destino.
Nella classifica sulla qualità della vita stilata lo scorso anno da Il Sole 24 Ore, la provincia di Caltanissetta, cui si rifà anche Campofranco, è in ultima posizione. Un risultato che, stando a quanto (non) si racconta della Sicilia, non pare sorprendere più di tanto. Così come non sorprendono le primissime posizioni di Milano, Bolzano o Trento. Tutte città del Nord, tutte città in cui si investe e non si negano servizi o infrastrutture. Ma se chiedete all’italiano medio, risponderà che è colpa della gente, e soltanto della gente, se il fondo della graduatoria se lo contendono da Napoli in giù. Non delle mafie in doppio petto che guadagnano al Nord e riciclano al Sud, ma dell’omertà di chi, spesso, nemmeno sospetta cosa succede sotto i propri occhi.
In quella che un tempo era una zona di fabbriche e miniere come la Cozzo-Disi, dove nel 1916 si consumò una delle più grandi tragedie minerarie della storia di Italia, oggi non ci sono più industrie, sindacati o carovane di operai che si apprestano a un nuovo turno. Ci sono soltanto rovine e rifiuti, discariche di domande senza risposta. Come a Serradifalco, 5mila anime e 4 milioni di metri cubi di scarti di sali potassici che a ogni pioggia salano i torrenti circostanti. Nemmeno più i pesci passano di là. L’amianto della miniera Bosco smantellata nel Natale del 1985, invece, a discapito di tutte le promesse della politica che si è alternata negli anni, resta esattamente dov’era. E con esso lo spettro dei tumori e la paura di non saperne abbastanza.
Non bastano, infatti, i tre funzionari regionali a processo e la loro più che probabile prescrizione per la mancata bonifica. Quello che è un timore, per chi vive nei paesi limitrofi, sembra più una certezza, la conferma – data anche da Leonardo Messina, collaboratore di giustizia – che nella cava ci sia tanto altro: rifiuti medici, come attestano le ricevute trovate sul posto – alcune provenienti dall’Emilia-Romagna, a proposito delle colpe di cui sopra – e chissà cos’altro di irraggiungibile e sconosciuto, seppellito a più di 12 chilometri di profondità. Intanto, non smettono di essere seppellite nemmeno le vittime di quest’ennesimo omicidio di Stato quando non riescono a fuggire. Sono almeno 73mila, infatti, i nisseni che abitano all’estero o al di fuori dei confini regionali. Siciliani impossibilitati a vivere la propria terra, rifugiati di una guerra silenziosa, migranti al pari di quanti proprio in Sicilia sbarcano e, talvolta, la ripopolano. Isolani senza isola.
Come ad Acquaviva-Platani, meno di mille abitanti e un’età media superiore ai 50 anni. Il fiume che bagna il paese trasporta plastica e rifiuti di ogni genere, lì dove Dedalo tentò la fuga da Minosse e oggi, forse, incontrerebbe morte certa. Come a Gela, dove il connubio emigrazione-malattia si ripropone impietoso dal 2014, quando il polo petrolchimico voluto da Enrico Mattei è stato definitivamente chiuso in attesa di essere riconvertito. Nel frattempo, nei neonati tra il 2010 e il 2015 si conta un aumento del 50% delle malformazioni, ma anche questa è cosa da niente: la medicina chiama, la politica non risponde.
È all’intera Sicilia, in fondo, che non risponde mai nessuno. Una terra straordinaria e sola, eternamente in bilico tra La piovra e Montalbano, tra arancine e arancini, tra Pozzallo e Lampedusa. Lì, dove nella narrazione quotidiana nasce e finisce, perché gli sbarchi fanno rumore, ma le partenze vanno taciute. E va taciuto anche cosa succede o cosa manca nella regione in cui i funerali superano di gran lunga i battesimi, in cui ogni città è isola a sé, senza strade interne e collegamenti esterni – che quando ci sono, se li possono permettere in pochi. Come la Statale 640, quella che unisce Agrigento e Caltanissetta, il Vallone o la Valle dei tumori, iniziata quasi dieci anni fa e inaugurata almeno quattro volte da quattro governi diversi, finita sotto inchiesta come tantissime altre opere pubbliche. La chiamano la Strada degli Scrittori perché intende unire Pirandello a Tomasi di Lampedusa, Sciascia a Camilleri. Penne eccellenti che hanno ridisegnato i contorni di una terra bellissima e maledetta. Troppo italiana, forse, per non esserlo. Poco italiana, forse, per accorgersi che sta morendo. E nemmeno lentamente.