Dopo quanto accaduto in occasione dell’edizione 2019 del Salone Internazionale del Libro di Torino, oltre che spontanea, la domanda è quanto mai d’obbligo: qual è il confine tra orgoglio e fanatismo? Qual è il limite che segna la differenza tra la possibilità di essere felicemente italiani e la deriva che trasforma tale sentimento positivo in un’estrema volontà di prevaricazione a danno del diverso?
La miglior risposta che per ora siamo riusciti a dare all’interrogativo porta un nome al tempo stesso antico e denso di visione: Repubblica. L’Italia, infatti, è una Repubblica, ancora sufficientemente democratica e fondata sul lavoro. Ma mancando quest’ultimo, per effetto della distruzione sistematica del potere d’acquisto dei salari e dunque della domanda interna – dovuta alle politiche di un’austerità originatasi sull’ormai storico e disastroso cambio lira/euro di prodiana memoria –, cosa resta dell’organizzazione statale disegnata dalla Costituzione del 1948 e della democrazia in essa definita?
Semplicemente nulla, se non reazionarie tartarughe nere, come le camicie indossate da parte di chi sventola le bandiere su cui sono rappresentate, che passeggiano indisturbate per le strade di città vuote di impiego e piene di rabbia. Cosa sta accedendo, quindi, nel Bel Paese, come nel resto d’Europa? Stiamo davvero andando verso una deriva di stampo patriottardo, che vorrebbe passare alla storia con l’espediente linguistico di sovranismo, con buona pace di Enrico Mattei e delle sue lotte per la sovranità – non solo energetica – della patria? E qual è, oggi, il significato di questa parola? È l’Italia la nostra patria o è l’Europa? Entrambe? Qual è il limite tra un sano senso d’appartenenza e la preconcetta difesa del limes di un territorio in cui a riconoscersi è il branco più che una comunità di persone disposte al confronto sia intra che extra moenia?
Io proclamo che Atene sia la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresca sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così: sostenne Pericle nel lontanissimo 431 a.C. rivolgendosi ai suoi concittadini. La nostra ci(vil)ttà, invece, non solo non è aperta al mondo, ma continua pericolosamente a declassare a mero folklore di maniera episodi come quelli accaduti a Casal Bruciato – con la veemenza del feroce attacco, non solo verbale, portato contro una famiglia rom –, piuttosto che nelle varie Tor Sapienza d’Italia con i rifugiati rimessi in strada dal Decreto chiamato, per ironia della sorte, Sicurezza.
Va detto apertamente: siamo di fronte a chiare manifestazioni di rigurgiti squadristi di stampo fascista, che dobbiamo guardare in faccia e respingere chiedendoci perché risorgono, considerandole come il lato peggiore di noi, l’ospite inquietante del nostro corpo collettivo e individuale che di tanto in tanto torna a farci compagnia quando la democrazia si indebolisce a fronte di chi, anziché nutrirla di valori come solidarietà e cooperazione, la svuota all’insegna di logiche competitive che nutrono guerre tra poveri, promuovendo provvedimenti annulla-tutele come il Jobs Act o, dicasi anche, molto più sobriamente, riforma (distruttiva) del lavoro, latrice di una tipologia di violenza che non definiamo fascista in senso classico poiché non ne condivide le sembianze, ma la cui vigliaccheria, quella di chi è capace di fare il forte con i deboli, c’è tutta, solo un po’ meno pura e tuttavia non meno dura, anzi più astuta, sottile, strisciante tramite cui ci stanno lentamente e inesorabilmente venezuelizzando.
I nuovi gerarchi sono di fatti tutte quelle oligarchie esterne collegate a servili élite interne, per lo più ammantate da reputazioni legate a background culturali di sinistra, le quali, in nome di una strana idea di mercato capace di tenere fissi i prezzi annientando i salari, acquisiscono vantaggi in cambio di servigi resi a favore dell’interesse privato dei propri padroni, cedendo loro pezzo dopo pezzo tutti quei Paesi che paiono non essere in grado di ripagare il loro debito, trasferendo così in mano altrui patrimoni industriali destinati per lo più alla dismissione, nonché assets finanziari da moltiplicare, facendoli migrare verso aree del pianeta caratterizzate da regimi tributari e forme di segretezza adatti alle esigenze di riservatezza di pochi sciacalli che possono in tal modo tranquillamente conservare, al riparo di qualunque tipo di indiscrezione, il loro sconfinato potere d’acquisto di beni, servizi e persone mentre ai molti vengono chiesti sacrifici per ovviare a problemi di portata epocale.
All’opposto c’è, invece, un’unità fisica e d’intenti che alla nostra Italia manca da 158 anni: Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi. Tutto sommato come oggi, sintomo ne siano le pretestuose, nonché pericolosissime, pretese di autonomia rivendicata da parte di alcune Regioni del Nord allo scopo di differenziarsi da quel presunto ladro di benessere che è il Sud, il quale, nonostante i furti, continua però stranamente a essere sempre più povero del sedicente derubato.
Non abbiamo bisogno di rotture mostrandoci ancor più divisi di quanto già non lo siamo, ma di una visione chiara del futuro in cui tutti siano messi ugualmente in condizione di poter fare la nostra parte per tornare a guardare avanti, applicando con convinzione tutte quelle forme di compensazione e controllo previste dalla nostra Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza e forgiata da quell’antifascismo silenzioso che si nutre della normalità di persone oneste che quotidianamente si svegliano per svolgere il proprio lavoro di insegnanti, imprenditori, operai, artigiani, impiegati, artisti, musicisti, nutrendo così la bellezza di un Paese che continua, nonostante tutto, a esser sorprendente seppur con il suo welfare zoppo, ma ancora in vita, di cui occorre fare profonda manutenzione, anziché continuare autolesionisticamente a demonizzare e a demolire.
Insomma, noi siamo l’Italia. Ovvero quella paradossale porzioncina di crosta terrestre emersa dai mari che si concede al resto del mondo in forma di Stivale, posizionato al centro del mar Mediterraneo e chiamato a esprimere, per vocazione, quel pensiero meridiano fatto di lentezza contro velocità, accoglienza contro repulsione, mescolanza contro presunta purezza di una razza mai esistita, solidarietà contro individualismo, cooperazione contro competizione, dove all’idea di uno Stato macchina si è sempre preferita la sregolatezza del genio, come quello di Leonardo, sentito talmente proprio da non provare neanche l’esigenza di doverlo celebrare, né tantomeno ostentare nel cinquecentenario delle sua morte, come è invece accaduto altrove nel Vecchio Continente, di cui noi abbiamo la fortuna di essere il più avanzato avamposto, vantando di poter nutrire, ma perdendone maldestramente occasione, l’anima di un Occidente che dovrebbe cessare di guardare con un orrore comodo e superbo alla barbarie del fondamentalismo, del nazionalismo e dell’economia criminale e tentare di riconoscersi in un pensiero basato sulla riformulazione dell’immagine che si ha del Sud, da intendersi come centro e non più periferia degradata dell’“impero” (F. Cassano), ovvero nuovo nucleo di un’identità ricca e molteplice, autenticamente mediterranea.
L’Italia è la Repubblica di Riace, fondata sulla logica del passeggiare, dove questo vuol dire infiltrare un po’ di vacanza in ogni giornata, lasciare aperta una fessura nel quotidiano, sapendo che la sorpresa può entrare anche dalle porte strette. Passeggiare è un’arte povera, un far niente pieno di cose, è abbandonare la linea retta. Passeggiare è il desiderio del ragazzo e dell’anziano, un’arte che l’adulto ha rimosso e sostituito con l’agonismo del jogging e della fitness. Passeggiare non serve a tenersi in forma, ma a dare forma alla vita.
Ecco, questo dovrebbe fare probabilmente l’Italia, sentirsi interamente, una volta per tutte, mediterranea e in quanto tale opporsi a ogni forma di austerità che neghi la sua connaturata dimensione legata al viaggio nel dna di tutti i popoli che hanno dato forma alla nostra identità in costante divenire, convincendoci che o neghiamo il fascismo, in ogni sua forma, variante, nonché mutazione, compresa quella economica, o non potremo far altro che continuare a negare fatalmente noi stessi.