Lo scorso 12 settembre è uscito il romanzo Shmutz di Felicia Berliner per Mar dei Sargassi Edizioni. La storia ci parla di Raizl, una diciannovenne nata in una comunità e in una famiglia ultraortodosse che, per una serie di vicende legate alla sua frequentazione al college, viene in possesso di un computer e di una linea internet. Da quel momento in poi le si spalancherà davanti un mondo sconosciuto e tentatore, diventando di fatto ossessionata dai video porno. La sua iniziale voglia di svincolarsi dalle rigide regole della comunità assumerà tinte patologiche: a causa di questa neonata “malattia”, Raizl manderà quasi a monte la sua intera vita.
Andando oltre la semplice trama, ciò che evidenzia il testo è il conflitto tra desiderio e imposizione ambientale o culturale: Raizl è una ragazza con l’obbligo di sposarsi, sa benissimo quale sono i suoi doveri, ma la pornografia appare come una soluzione per concretizzare la ribellione e per esplorare un mondo che le è precluso. Ai nostri occhi, le comunità ultraortodosse chassidiche sono circoli chiusi, molto rigidi, in qualche modo anacronistici, eppure chi vi nasce non può ovviamente rendersene conto, oppure sosterrebbe che tutto ciò che il mainstream ci mostra è solo una parte della verità. Tuttavia Raizl, pur facendo parte di una “canonica” famiglia dedita al rispetto delle norme, è diversa. La domanda nasce spontanea: se non avesse scoperto il mondo di fuori, si sarebbe ribellata lo stesso? E di fatto, Raizl davvero si ribella?
Il testo ci racconta le sue notti insonni a guardare un video porno dopo l’altro, ma di giorno si comporta come una figlia devota, una studentessa modello, una sorella impeccabile: da cosa fugge allora? Il desiderio palese e anche naturale di esplorare il proprio corpo, di pensare all’altro sesso, di pensare al sesso stesso non come atto meccanico per fare figli, ma come processo di scoperta e piacere condiviso sembra coagularsi in quei video. L’atto sessuale che nella sua comunità è proibito prima del matrimonio e persino durante (se non per procreare e riprodursi) assume una tinta giocosa, leggera, le lascia intravedere un modo di vivere completamente diverso dal suo.
Come nel caso di Unorthodox, fortunata serie Netflix che ha per protagonista una donna molto simile a Raizl, si impone una dicotomia oppositiva tra “noi” e “loro”: il noi, dettato da una famiglia che vuole unicamente la donna come contenitore per i futuri figli e il loro, quel mondo, rappresentato dalla pornografia e dalle amicizie universitarie di Raizl, che rivela molto altro. Lo stesso atto della masturbazione sembra una ribellione immane, laddove capisce che le persone al di fuori della comunità nemmeno ci fanno caso. Eppure, a differenza di Unorthodox o di altri romanzi e serie che trattano le difficoltà di persone che vogliono abbandonare la comunità chassidica, Raizl non vuole lasciarla. Può sorprendere, no? La cosa più curiosa e ardua da comprendere è proprio questa: la ragazza capisce che c’è dell’altro, lo vede, lo sente, eppure resta fermamente ancorata all’idea di non abbandonare il suo posto.
Ciò che si propone di fare è bilanciare i suoi desideri con il restare “pura” e perfetta per un futuro matrimonio: è per questo che accetta di partecipare a numerosi b-shows (appuntamenti concordati in anticipo tra famiglie che hanno figli celibi e figlie nubili, attraverso l’intervento di un sensale, un po’ come si faceva anche qui da noi anni fa) attraverso cui conoscere la persona giusta. Ma ci si chiede se sia davvero possibile conciliare le due cose, acquisire una personalità e una mente propense all’oscenità e contemporaneamente comportarsi come una dimessa ragazza pronta a sottomettersi al marito.
Ecco, per quanto riguarda la terminologia, Raizl darebbe una connotazione perversa al quel “sottomettersi”, perché i video porno le insegnano che la donna è sempre, o quasi, in posizione di inferiorità e di obbedienza, e questo lei lo comprende, lo decodifica in modo meccanico associando l’atto di piegarsi ai voleri dell’uomo come vede fare nella sua famiglia da tutta la vita.
Questo nodo diventa piuttosto divertente nelle descrizioni delle sue fantasie: la prosa di Berliner (e la traduzione di Marina Finaldi) ci dipinge una ragazza sostanzialmente ingenua ma, al tempo stesso, maliziosa, timida anche con se stessa quando pensa ai genitali o all’atto sessuale, scegliendo e coniando nuovi termini per non usare parole volgari o troppo esplicite. Eppure, quando incontra i suoi probabili futuri mariti li spoglia con gli occhi e s’immagina le acrobazie più piccanti. Un conflitto nel conflitto: il desiderio di essere dirty pur sostenendo la parte della vergine immacolata.
Perché? Perché Raizl ama la sua famiglia ed è terrorizzata all’idea di restare zitella. Eppure, mentre il porno rappresenta la sua lussuria, un sentimento profondamente umano stigmatizzato probabilmente dalla maggior parte delle religioni, se non in tutte, la dipendenza contraddice l’idea che il porno stesso, spesso misogino, sia una forma di liberazione. Se pensiamo che l’yiddish, la prima lingua di Raizl, nemmeno possiede le parole precise per descrivere ciò che vede nei video, possiamo comprendere, almeno in parte, ciò che rappresenta per lei quella scoperta.
Allo stesso modo in cui ama la sua famiglia, ama Dio (nel testo, Hashem) e la luminosità della sua fede si contrappone alla pornografia stessa: se è pur vero che i video porno le aprono un universo affascinante, Raizl, a un certo punto, si rende conto che la sua è una dipendenza e che non è tutto oro quello che luccica. Fin quando la gioia della novità le mostra il sesso in modo tenero, complice, e anche spinto, perché no?, la sua “malattia” si circoscrive nell’atto della masturbazione, ma come tutte le cose a cui dà accesso internet, c’è anche il risvolto della medaglia. La pornografia che lei guarda diventa sempre più perversa, sempre più oscura, sfociando casualmente nella pedopornografia, ed è qui che avviene una rottura: fin tanto che il sesso le viene affrescato come un gioco tra adulti, Raizl si abbandona totalmente ai suoi desideri, ma la vista di certe scene arresta bruscamente la sequenza. A complicare la questione è la presenza della sorella minorenne di Raizl, tramite cui l’associazione e la traslazione tra il reale e la finzione causeranno il disgusto.
Alcuni hanno associato il libro ai romanzi di Roth, ma trovo che la differenza sostanziale sia una e semplice: il punto di vista. Felicia e Raizl sono donne, basta questo a creare un abisso. E non si tratta di una questione di sesso, ma di evidenze: nelle comunità iper religiose, seppur anche gli uomini siano costretti dalla rigidità delle regole, sono le donne ad avere la peggio. Tra l’altro Roth non fa parte di una comunità ultraortodossa e il suo focus è, chiaramente, sempre sul desiderio maschile. Ciò che rende affascinanti libri come Shmutz, dunque, è proprio lo slittamento dello sguardo, l’occhio di bue puntato sulla fame di vita delle donne di quelle comunità.
Sorprende il finale, a questo punto, e alcuni lettori a tal proposito potrebbero storcere il naso: io invece trovo che sia perfetta sintesi di tutto ciò che Berliner ha descritto, della collisione intima nell’animo di Raizl tra appartenenza e amore per le proprie radici e la voglia di essere un corpo con dei desideri e delle voglie più che legittime.