Mia nonna e io riuscivamo a fare delle lunghe conversazioni e senza mai aver bisogno di aprire la bocca. Diceva che era lo shining, la luccicanza. E per molto tempo io credevo che eravamo solo noi due ad averla la luccicanza, proprio come tu credi di averla tu e basta. Ma ce l’hanno anche tanti altri invece, solamente che forse non lo sanno, oppure non ci credono. – Dick Halloran in Shining
A una settimana esatta dall’uscita della Final Cut di Apocalypse Now, ecco spuntare nelle sale un’altra riedizione di un classico: la pellicola di Stanley Kubrick del 1980, tratta dall’omonimo romanzo di Stephen King del 1977 e diventata un caposaldo del genere horror. Va detto che in questo caso l’operazione fatta con Shining, già ridistribuito nei cinema due anni fa in occasione del quarantennale del romanzo, nasce da esigenze commerciali, cioè come viatico all’uscita, il 31 ottobre, di Doctor sleep, l’adattamento cinematografico del sequel di Shining che King pubblicò nel 2013.
Kubrick, essendo trapassato da due decenni, ovviamente non c’entra nulla con questa nuova uscita e la versione di 119 minuti che fu distribuita in Europa e nel resto del mondo era quella che evidentemente voleva che noi guardassimo. Ciò non toglie che la versione di 144 minuti che abbiamo finalmente l’occasione di vedere adesso è la stessa che fu resa nota in America nel 1980 e che quindi lo stesso Kubrick approntò per lo spettatore americano. Si tratta, dunque, di scene inedite solo per il pubblico europeo. È notorio, inoltre, il controllo totale che il cineasta aveva sui suoi film, per cui non ci sono dubbi di sorta sul fatto che la differenza tra le due versioni, distribuite in America e in Europa, fosse frutto della volontà dello stesso regista e non di ingerenze produttive.
In effetti, quei 24 minuti in più contengono alcune informazioni interessanti sui personaggi e sulle situazioni. Notizie che, però, potevano essere sottaciute e rese implicite senza nulla togliere allo spettacolo, come poi è stato fatto nella versione europea. Sarebbe affascinante, tuttavia, capire i motivi che spinsero Kubrick a fare questa scelta: forse, nella sua visione, il pubblico americano è più fanciullesco e ha bisogno di essere imboccato, a differenza di quello europeo? Sembrerebbe di sì. Ma non corriamo a conclusioni affrettate.
Per i pochi sul pianeta che non hanno mai visto Shining, riassumiamo brevemente la trama: Jack Torrance (Jack Nicholson), un insegnante con velleità da scrittore e con problemi di alcool – c’era molto dello Stephen King dell’epoca nel personaggio –, riceve l’incarico di sorvegliare per tutto l’inverno l’Overlook Hotel, un lussuoso albergo situato sulle montagne del Colorado che, durante i mesi freddi, resta di solito totalmente isolato a causa della neve. La moglie Wendy (Shelley Duvall) e il figlio di 5 anni Danny (Danny Lloyd) lo seguiranno in questa reclusione che Jack cercherà di sfruttare per scrivere il suo romanzo.
Il piccolo Danny possiede un potere particolare, definito luccicanza (shining, in originale): riesce a sentire i pensieri delle altre persone nonché a guardare nel passato o nel futuro e, soprattutto, a percepire le tracce psichiche di eventi particolarmente violenti accaduti in determinati luoghi. Guarda caso, l’Overlook Hotel è zeppo di tali tracce, rilevabili solo da chi possiede la luccicanza, che si rivelano vere e proprie presenze fantasmatiche le quali, in alcune occasioni, paiono avere consistenza fisica e diventare pericolose. Tali presenze sembrerebbero influenzare anche la personalità di Jack che, pian piano, impazzisce e, in un delirio di paranoia, cerca di far fuori moglie e figlio a colpi di ascia.
Non tenteremo qui una disamina completa del film perché sarebbe impossibile e poi ne sono già state fatte davvero tante. Tra le più interessanti consigliamo quella contenuta nel bellissimo volume di Michel Chion Stanley Kubrick – L’umano, né più né meno edito da Lindau. Cercheremo quindi di portare alla luce solo alcuni aspetti, alcuni dei quali relativi alle scene aggiunte.
Come è noto, Stephen King non apprezzò la riduzione filmica di Kubrick affermando, tra le altre cose: «La gente ama quel film, ma io no: il libro è caldo, il film è freddo. Il libro finisce nel fuoco, il film nel ghiaccio». In effetti, mentre il romanzo si conclude con una grossa esplosione delle caldaie che riduce in cenere tutto l’albergo (Jack compreso), il film fa morire il protagonista assiderato nel tentativo di acciuffare il figlio nel labirinto di siepi, luogo tematicamente significativo nell’economia narrativa della pellicola ma assente nel libro. Qui invece sono presenti animali fatti di siepi che prendono magicamente vita. Al di là del finale, è comprensibile che King non abbia amato il film perché Kubrick prese una storia di fantasmi, decisamente terrorizzante, e ne raffreddò la messa in scena, abbassò la temperatura emotiva della rappresentazione filmica, rendendo la recitazione degli attori molto straniante per il pubblico, quasi anti-empatica. Una sensazione che il regista americano infondeva in molti suoi film: si veda il linguaggio tecnico degli astronauti di 2001, che non tradiscono emozioni neanche nei momenti più difficili, oppure la recitazione sopra le righe di Malcolm Mc Dowell in Arancia meccanica, come pure l’interpretazione parossistica di alcuni personaggi che attorniano l’apparentemente compassato protagonista di Barry Lindon che pure ha i suoi scoppi d’ira. Sono tutti modi con cui Kubrick voleva portare lo spettatore in un particolare stato emotivo di disagio e di strana attrazione/repulsione per i personaggi che commettono azioni più meno disdicevoli. Tale straniamento comporta una fuoriuscita dello spettatore dalla sua zona di comfort e ne stimola così riflessioni molto profonde che continuano ben oltre la visione della pellicola. In questo modo, è difficile non tornarci sopra per cercare di dipanare quel turbamento che inevitabilmente attanaglia l’animo dopo un film del regista americano.
Per Shining vale lo stesso: la discesa di Jack negli inferi della follia e della paranoia è disturbante e resta stampata nella coscienza dello spettatore, non solo perché la sua violenza si rivolge verso i suoi cari. La recitazione apparentemente fredda, tipicamente kubrickiana, aiuta così ad aumentare quel senso di disagio e la successiva riflessione. Non si pensi però che l’interpretazione sopra le righe di Nicholson, invece, si possa definire calda. Se in tutta la prima parte del film lo vediamo assumere atteggiamenti sempre piuttosto cordiali e, quindi, emotivamente freddi, quando avviene l’escalation nella pazzia, sebbene diventi parossistica e caricata a mille, la sua performance ci allontana emotivamente da lui e lo troviamo addirittura divertente quando scimmiotta la disperazione della moglie Wendy nella scena clou della pellicola.
Successivamente, se ripensiamo a quel momento, la nostra coscienza si ribella al pensiero di aver sorriso guardando un assassino che prende perfino in giro la vittima – in questo caso addirittura la moglie – poco prima di cercare di ucciderla. Ma è proprio ciò che avviene guardando il film – confermato dalle reazioni in sala durante la visione – ed è per questo che parliamo di fuoriuscita dalla zona di comfort dello spettatore che, normalmente, è portato a identificarsi e a empatizzare con il protagonista. Shining mette a nudo il lato oscuro presente in ognuno di noi e lo fa ancora con una forza dirompente, facendoci sentire a disagio e sporchi, in difetto verso la nostra coscienza o, se vogliamo, verso il nostro super io.
Come molti sapranno, le maschere della follia sono un topos visivo distintivo dell’universo kubrickiano e la lotta tra razionale e irrazionale ne caratterizza tutta la filmografia. Non è difficile dunque immaginare perché Shining, il libro, con la vicenda di Jack che si cala nei pozzi neri della propria psiche, rappresentasse una sfida molto interessante per il cineasta americano. Inoltre, nel romanzo di King la trasformazione di Jack viene per lo più manipolata dalle entità che popolano l’albergo e che, premendo i tasti giusti di una personalità già frustrata, la fanno esplodere. Nel film di Kubrick, invece, il modo in cui viene impostata la recitazione di Nicholson ci suggerisce che qualcosa di sbagliato sia già insito in lui, al di là delle influenze fantasmatiche che lo spingono all’omicidio. Per varie ragioni, dunque, può essere intuibile perché King non gradì.
Detto ciò, alcune scene di questa nuova edizione forniscono delle informazioni che potrebbero risultare interessanti. All’inizio del film, dopo una crisi auto-ipnotica di Danny provocata dalla luccicanza, assistiamo alla visita di una dottoressa. Quest’ultima non capisce di trovarsi di fronte a un bambino con particolari poteri psichici e quindi tratta le improvvise trance del piccolo come effetti psicologici dovuti al cambio di città. Abbiamo così un assaggio della risposta riduzionista della medicina ufficiale nei confronti di fenomeni che non si comprendono. Apprendiamo però, già in questa scena, di un grave episodio nel quale Jack, ubriaco, aveva torto il braccio del bambino provocandogli una lussazione. Wendy, nel raccontare l’accaduto alla dottoressa, minimizza. Tutto ciò, messo all’inizio del film, diventa molto emblematico e colora i personaggi già di un certo tono. Nella versione europea, invece, la rivelazione dell’incidente arrivava solo successivamente. Anche altre informazioni più dettagliate sulla storia dell’albergo, condivise tra l’altro con il romanzo originario, vengono fornite sin dalle prime battute dal direttore che assume Jack.
Nella scena in cui il cuoco Dick Halloran – anche lui detentore dello stesso potere del bambino – istruisce Danny sullo shining, viene data qualche altra informazione sulla natura malefica dell’albergo, luogo che possiede a sua volta una sua luccicanza. Alla fine, quando Wendy corre per la sua vita e per quella del figlio e, come sappiamo, comincia anche lei a vedere i fantasmi dell’albergo, scopriamo qualcosa in più. Nella precedente versione europea intravedevamo due fantasmi-ospiti, vestiti da animali, che avevano un rapporto orale, visione fuggevole che contribuiva a quell’effetto di straniamento e disagio che percorre tutto il film. Adesso, a questa visione si aggiungono degli scheletri vestiti di tutto punto che sono seduti nella sala da ballo dell’Overlook in un mare di ragnatele e polvere. Visione certamente più convenzionale che banalizza un po’ l’effetto finale.
Altre aggiunte invece regalano un senso drammaturgico maggiore alla messa in scena. Per esempio, la trance in cui entra il piccolo Danny, pronunciando ossessivamente la parola premonitoria redrum – contrario di murder – prima dell’escalation finale, in questa edizione estesa comincia cronologicamente molte ore prima, mettendo già in allarme Wendy. Tra l’altro, durante questa trance il bimbo guarda in tv un episodio di Road runner e Wile Coyote. Impossibile non paragonare ironicamente il sorriso malizioso dello sfortunato e famoso coyote al folle ghigno di Jack. È qui che Wendy, preoccupata, prende la mazza da baseball e va in cerca del marito. Ecco quindi che abbiamo un’introduzione alla famosa scena madre del confronto tra Wendy e Jack che, nella versione europea, mancava.
Infine, varie scene di raccordo ci mostrano di reazioni dei personaggi che non avevamo mai visto. Per esempio Jack che continua a lavorare con la macchina da scrivere dopo aver cacciato Wendy in malo modo. Oppure ancora Jack che gioca da solo con la palla da baseball, scena che dice già qualcosa del suo disturbo. Alcune battute in più tra i coniugi durante la colazione oppure tra Jack e Danny. La sensazione è che, in alcuni di questi momenti, Kubrick abbia lasciato accesa la macchina da presa per mostrarci delle code emotive che altrimenti non avremmo potuto gustare.
Dunque, alla domanda iniziale se Kubrick considerasse il pubblico americano meno accorto e smaliziato di quello europeo, dobbiamo rispondere sì e no. Se da un lato le scene inedite aggiungono informazioni che potevano rimanere implicite, dall’altro esse approfondiscono alcuni aspetti del film e danno un senso maggiore ai comportamenti dei personaggi.
Riguardo questa Extended Edition va aggiunto però che nell’edizione italiana è stato scelto di mantenere il doppiaggio originale dell’epoca per quanto riguarda le scene già presenti, cosa lodevole, e di ridoppiare quelle inedite, cosa meno lodevole. Mentre per Nicholson si è scelto saggiamente di reingaggiare Giancarlo Giannini, per tutti gli altri personaggi sono stati presi doppiatori diversi – forse alcuni sono morti? – per cui, quando si passa alle scene inedite, c’è un effetto straniante in cui i personaggi improvvisamente parlano con una voce diversa. Anche lo stesso Giannini, 40 anni dopo, ha un timbro vocale inevitabilmente differente. Alla luce di ciò, il risultato è decisamente fastidioso.
Se proprio si voleva distribuire il film in italiano, per comprensibili ragioni commerciali, allora era meglio lasciare le scene inedite in lingua originale con i sottotitoli, come si è già fatto in passato per altre edizioni estese di film in dvd. Oppure si poteva scegliere di distribuirlo totalmente in lingua originale ma, ci rendiamo conto, questo avrebbe certamente tagliato una fetta di pubblico. Apprezzabile comunque il fatto che almeno abbiano evitato di ridoppiarlo totalmente, soprattutto visti i disastrosi ridoppiaggi italiani moderni che sono stati fatti con altri classici come Il padrino oppure Incontri ravvicinati del terzo tipo e Lo squalo. Resta il piacere di rivedere su grande schermo un’opera la cui potenza evocatrice è ancora oggi ineguagliata e che, come ogni horror di un certo livello, riesce a giocare efficacemente con gli archetipi dell’inconscio, sia personale che collettivo, facendoci riflettere sulla natura dell’essere umano.