Avete mai sentito parlare dello sharenting? Sicuramente sì, anzi possiamo dire che si tratta di una tra le dispute più aspre degli ultimi tempi. Con questo neologismo – la crasi di share (condividere) e parenting (genitorialità) – si intende la pratica, oggi sempre più abituale, di condividere in dosi massicce immagini e video dei propri figli sui social, soprattutto quelli molto piccoli. Qualcosa che la maggior parte dei genitori fa, inutile negarlo, e che non sembra trasparire nulla di malvagio. Ma che succede quando questi genitori sono i cosiddetti very important people, influencer che con i social ci lavorano e documentano la loro giornata h24?
Accade quello che viene definito effetto Truman Show. Tenere foto, video buffi e divertenti di vita quotidiana, follower che impazziscono tra like e commenti e partecipano alla crescita costante di questi giovani protagonisti con solo un piccolo, dubbio cavillo: spesso, i bambini non sono consapevoli di essere ripresi e condivisi.
Per tutti quelli che non hanno mai visto il film The Truman Show, in primis, benvenuti sul pianeta Terra, anno 2023. Stratosferico cult del 1998 diretto da Peter Weir e interpretato da un grandissimo Jim Carrey, narra le vicende di un uomo, Truman, il quale scopre con orrore che la sua vita apparentemente perfetta non è altro che una messinscena costruita a tavolino per renderlo il protagonista di un vero e proprio reality show. Da qui la volontà di riprendere il titolo del film per identificare quello che, per certi versi, accade con i bambini della cosiddetta generazione Alpha, cioè quelli nati negli anni tra il 2010 e il 2020.
Se da un lato si tratta di bambini estremamente a proprio agio con la tecnologia, che fa parte del loro quotidiano sin dalla nascita, c’è comunque da domandarsi che rapporto possano instaurare nel tempo con la privacy e con i concetti di pubblico e privato, oggigiorno dal confine sempre più labile.
Social come Facebook, Instagram o TikTok sono oramai rigurgitanti di utenti più o meno seguiti, dalle vite patinate messe in bella mostra giorno dopo giorno. Vita che, a un certo punto, comprende anche diventare genitori. Ed ecco che questi piccini compaiono su internet prima ancora della loro venuta al mondo, dall’ecografia al primo vagito, al bagnetto, alle prime parole. I bambini attirano visualizzazioni e, di conseguenza, anche guadagni, se si fa riferimento, ad esempio, ai cosiddetti baby influencer. Un tema destinato a dividere l’opinione pubblica: da una parte chi non ci trova nulla di male, dall’altra sono in tanti a ritenere questa una forma di vetrinizzazione dei figli che cela grossi rischi e ripercussioni.
Volendo fare un esempio concreto, a far riflettere è stato un recente episodio avvenuto in casa Ferragnez, a seguito di una storia Instagram della nota influencer Chiara Ferragni che mostra una scena ripresa non dallo smartphone, come di consueto, ma dal sistema di videosorveglianza dell’abitazione. Nel video, il primogenito della coppia, il piccolo Leone, si apre alla mamma mostrandole il suo affetto e dicendole quanto sia fiero di lei. Una scena senza dubbio dolcissima ma che ha suscitato profonde polemiche. La critica la si può intuire: quello era un momento intimo e confidenziale, lontano dalle telecamere in vista e utilizzate per il quotidiano lavoro social. Così facendo, sono state minate la fiducia e la sfera privata del bambino che credeva di star condividendo un momento di riservatezza con la propria madre quando invece è stato visto da milioni di persone. Sia chiaro, ritengo la famiglia di Fedez e Chiara Ferragni una splendida famiglia, ricca sì ma spesso anche troppo contestata dalla frustrazione di alcuni utenti (e non dimentichiamo anche questi commenti quanto potrebbero nuocere se letti dai bambini).
Resta però da discutere un aspetto fondamentale dello sharenting: le baby star non saranno per sempre baby. Cresceranno e svilupperanno una coscienza propria, non per forza in linea con quella dei genitori. Emblematica la sentenza del 2017 a favore di un ragazzo che aveva citato i genitori per le numerose immagini di sé postate online senza il suo consenso. Tra i rischi di questa condivisione compulsiva, infatti, non vi sono soltanto pericoli legati all’adescamento di minori o alla pedopornografia, ma anche una grandissima ripercussione psicologica dovuta alla violazione della privacy, diritto fondamentale di ogni essere umano, adulto o bambino che sia.
Immagini o video di pargoli in situazioni anche piuttosto imbarazzanti che, se riguardate dallo stesso bambino un giorno neanche troppo lontano, potrebbero generare profondo disagio, esattamente come succedeva quando la mamma tirava fuori l’album delle nostre foto da piccini per mostrarle agli ospiti, mentre noi, dall’altro lato del soggiorno, morivamo di vergogna e le facevamo segno di no. Solo che allora l’album si richiudeva e riponeva sullo scaffale. Adesso, quei contenuti restano online, alla mercé di chiunque. Alla mercé di potenziali cyberbulli, se un coetaneo malintenzionato dovesse incappare in foto o video compromettenti.
Come ci mostra lo spot Stop Sharenting di UNICEF Norvegia, quando i bambini saranno più grandi e consapevoli si ritroveranno come circondati da un’enorme e straniante esibizione della loro vita. Scopriranno di possedere un’identità digitale pregressa su cui non hanno avuto alcun controllo ma che si porteranno dietro per sempre. Ognuno con la sua personale, inopinabile emotività. Condividere dunque la propria vita e, di conseguenza, i propri affetti è un fenomeno ormai comune ma credere che qualsiasi contenuto, specie se riguarda minori, vada bene solo perché i genitori siamo noi, significa oggettificare il proprio figlio, identificarlo come un prolungamento di noi stessi e mancare di empatia.
Molto interessante lo studio del giornalista e formatore Gianluigi Bonanomi sull’uso consapevole della tecnologia. Il suo libro Sharenting. Genitori e rischi della sovraesposizione dei figli online illustra le motivazioni (narcisismo, insicurezza) e i dati del fenomeno ma soprattutto le conseguenze (di cui i genitori sono spesso del tutto ignari) riguardo privacy, cyberbullismo, furto di identità e altro. Siccome nessuno condanna chi condivide immagini dei figli sui social, è importante quantomeno agire con criterio e consapevolezza. Evitare foto/video di momenti intimi, evitare di postare dati sensibili, chiedere, se possibile, il consenso ai propri figli o chiedersi se, in futuro, quel contenuto potrebbe nuocere loro. E, poi, non smetteremo mai ribadirlo, la legge.
Se è vero che nell’immaginario collettivo i bambini dovrebbero sempre e solo fare cose da bambini, è anche vero che esistono da sempre fanciulli che svolgono dei lavori, basti pensare al mondo del cinema o della televisione. In quei casi, a livello legale, vi è una regolamentazione ben precisa su quelli che sono i loro diritti, ad esempio riguardo le ore lavorative consentite. Perché non esiste allora una normativa che si interessi dell’immagine e della privacy dei minori sul web? Il nostro è a tutti gli effetti un tempo fluido, nel quale la società è, volente o no, interconnessa. Internet e i social sono parte di noi e non possiamo più vestirci da struzzi fingendo che non sia così. Il virtuale è reale. Come il reale viene regolamentato legalmente, così dovrebbe essere per il virtuale. Nel 2020, difatti, la Francia ha emanato una legge a tutela dei minori negli ambienti digitali e sulle piattaforme social, sia ciò finalizzato a un guadagno economico o no.
Lungi da me trovare un senso logico ai genitori che condividono foto dei figli con l’emoji sul viso. Su quello no comment. Il problema è sempre la mancanza di una giusta mediazione e la consapevolezza che il social fa ormai parte delle nostre vite e non è vietando ma regolamentando – e soprattutto impartendo una solida educazione civica digitale – che si costruisce un internet sicuro e proficuo.