Ogni volta che leggo Hilary Tiscione, penso sempre alle atmosfere sensuali e minacciose dei deserti. Nonostante Setole, il suo nuovo romanzo pubblicato da Polidoro Editore, sia ambientato in un luogo esotico come le Hawaii, a me vengono sempre e solo in mente le distese giallo oro di alcune parti del mondo che richiamano alla solitudine, a una certa pericolosità ancestrale. Probabilmente sono influenzata da Liquefatto, il primo romanzo di Tiscione, che vedeva la protagonista Maddalena intraprendere, tra le altre cose, un viaggio on the road nel deserto del Mojave.
Stavolta l’autrice opera diversamente: non c’è alcuno spostamento, tutto avviene nella bolla ovattata di una villa con piscina, che tanto mi ha ricordato certi film come Il laureato (1967) o La piscina (1969) con Alain Delon e Jane Birkin. Ecco, quell’atmosfera onirica, sgranata, che sembra uscita direttamente da una pellicola o dalla cellulosa. Tiscione ha l’abilità di sospendere la narrazione in un piano parallelo, tanto che durante la lettura ci si sente altrettanto sospesi. La capacità cinematografica della scrittura dell’autrice è indubbia, lo avevo già notato con Liquefatto e si riconferma in questa seconda prova: nella storia di Lena, Rocco, Mira e Cino però vi è una maturità in più, un modo di dire e non dire, una staticità che si oppone alla rabbia con cui il primo romanzo era stato scritto.
La trama, dunque: ci troviamo in questa villa enorme, un’isola su un’isola – quindi un doppio isolamento dal mondo – in cui quattro personaggi principali, tutti ugualmente importanti, si muovono a rallentatore. Il conflitto più immediato è rappresentato dalla sparizione di Al, il padre di Lena e il marito di Mira, che è un musicista famoso a livello internazionale. Non si sa che fine abbia fatto, si ipotizza che la causa sia un litigio, la stanchezza, una volontà di annullarsi, di staccarsi dalla famiglia.
Lena si innamora di Rocco, uno dei giovani operai che sono lì per mettere in piedi la sua dépendance. Cino, il fedele, onnipresente Cino, fa da collante, spegnendo i toni, calmando la rabbia, occupandosi delle cose più pratiche di cui tutti gli altri hanno bisogno, sia che si tratti di un tramezzino sia che si tratti di impedire tentativi di suicido da parte di Mira. Cosa fanno questi personaggi chiusi in una villa? Ognuno di loro vive autonomamente la propria solitudine: Mira, una donna ferina, annientata dal dolore; Lena, che si rifugia nell’amore carnale per Rocco; Rocco stesso, che si appoggia a un sogno che non pensava di meritare; e Cino, che è lì per non far andare tutto in pezzi.
Questo non è un romanzo di trama: a livello di eventi effettivi non succede molto, tutto ruota intorno al linguaggio, allo stile, alla scelta oculatissima delle giuste parole per sottolineare le descrizioni. Descrizioni che ci introducono piano piano in una casa, essa stessa vero e proprio personaggio, nido e trappola; descrizioni dell’ambiente esotico, le piante, gli insetti, i profumi, i colori, resi con una iper aggettivazione tipica dell’autrice, un suo tratto distintivo, tanto distintivo che, anche senza leggere il nome in copertina, bastano poche righe a capire che la penna è sua. Questo è un pregio di Tiscione, la riconoscibilità. La si riconosce anche nella sensualità delle interazioni tra i personaggi, tra i personaggi e l’ambiente, niente è lasciato al caso, ogni dettaglio, ogni aggettivo, ogni metafora è resa al massimo della potenzialità, e in questa oculatezza si intuisce il grande lavoro di ricerca linguistica, già iniziata con il primo romanzo.
Dunque i personaggi interagiscono tra loro come fossero delle entità autonome, governate da una mano divina: su di essi pesa il Grande Assente, Al, quindi anche in questa scelta c’è una sottrazione, bilanciata dalla ricchezza e dalla ricercatezza della lingua. E della musica: altro elemento peculiare dell’autrice, l’inserimento all’interno del testo di tracce musicali che, probabilmente, l’hanno ispirata o sono state ascoltate nel momento della scrittura.
Non ho fatto domande e il modo in cui non ho tentato di giustificare la nostra assenza da scuola, mi ha detto di me e di alcuni esseri viventi una cosa: ci sono tra le persone dei piccoli lutti. Delle interruzioni. Scontri con qualcuno che in quel momento avverte una trappola, un dubbio violento che non lo fa dormire, qualcuno impressionato dal fastidio, incapace di calibrarsi, qualcuno che sbraita o si ritira nel dispiacere, infervorato dalla paura, dal tormento, dal decesso fulmineo di un parente, di un amante, qualcuno che d’improvviso cambia strada, qualcuno che si ammala, che parte, qualcuno che cerca la fede pochi giorni prima di morire, qualcuno che prega a vuoto, a nessuno, e tu, finito nel suo incidente, stai zitto. Ti licenzi dal suo dolore. Taci. Riposi. Passeggi, mangi qualcosa, dormi, ti innamori. Non ho mai chiesto a Sue perché quella mattina avesse deciso di non andare a scuola. Non ne avevo voglia neppure io. Mia madre è rotta. Mio padre è un fatto. Io fumo questa sigaretta. Mi separo dal dolore degli altri. E qui intorno c’è così tanta bellezza che debilita. (pag. 163)
La narrazione si divide tra una voce in prima persona, quella di Lena, e una terza onnisciente, che racconta soprattutto la condizione peculiare di Mira, una madre-mostro, una donna che sembra una bambina mai cresciuta – nello spirito, non nel corpo, un corpo che scatenerà un potenziale distruttivo fatale – e che aiuta a recuperare un po’ di movimento. Il personaggio di Mira è molto facile da odiare, com’è facile amare follemente quello di Cino, due facce di uno stesso dado. Lena e Rocco, quasi a lato, due ragazzi giovani che si innamorano e che fanno tutto quello che ci si aspetta da due ragazzi giovani, provano a capire il mondo dei grandi senza però riuscirci. Entrambi ne verranno feriti, in modi diversi.
E Al? Al è uno spettro, aleggia con la sua assenza pesando sulla loro esistenza, come fosse quasi un dio di cui si attende il ritorno, un colpo di spugna che potrebbe cancellare la sofferenza. E però questo dio non c’è, quindi bisogna vivere come si può. Non si faccia tuttavia l’errore di pensare a lui come a un salvatore.
Mi piace sempre Hilary Tiscione perché è una di quelle autrici da leggere senza fretta. Il suo modo di scrivere, accorto, preciso, maniacale nella scelta di ogni singolo termine si trasmette anche al modo di affrontarne la lettura. Solitamente leggo molto velocemente, in questo caso mi sono presa del tempo per capire, per godere delle parole. Potrebbe non piacere a chi è abituato a uno stile immediato, asciutto, minimale, ma io amo particolarmente la ricchezza descrittiva, l’aggettivazione barocca, la resa fisica degli odori e dei colori, dei suoni, nonché la portata quasi cinematografica delle scene. Se ne facessero un film, o meglio ancora, una serie, non ne rimarrei stupita.
E perché poi proprio Setole? Nel libro c’è una papabile spiegazione, in una scena che vede Mira osservare degli spazzolini da denti, metafora dell’assenza di Al, del dolore che le ha causato, come se quegli spazzolini fossero tutti i personaggi, ognuno con le sue caratteristiche, in forma di oggetto.
Ai lettori scoprire se la mia interpretazione è giusta o meno.