Immaginate che per due anni e mezzo vi permettano di tornare a dormire dalla vostra famiglia mentre scontate la vostra pena. Immaginate che poi, tutt’un tratto, quella quotidianità diventa un privilegio e dovete far ritorno in cella, anche se oramai la vostra vita è fuori. È quello che è accaduto a 700 persone detenute in regime di semilibertà che, a seguito dell’emergenza pandemica, avevano potuto godere di una licenza speciale, tornando così per la notte, dopo aver lavorato, dai propri affetti.
A partire dal 1 gennaio 2023, però, tale opportunità non è stata rinnovata, nonostante i ripetuti appelli dei Garanti delle persone private della libertà personale – che hanno anche organizzato uno sciopero della fame a staffetta – e di tutta la società civile che ha potuto rendersi conto di una simile ingiustizia, quasi passata inosservata. Gli emendamenti presentati al cosiddetto decreto anti-rave per la proroga della misura sono così stati bocciati e ora la permanenza notturna in cella non conserva alcuna finalità se non quella meramente punitiva. Si tratta infatti di persone per le quali non si sono registrati problemi di sicurezza, il cui percorso di reinserimento sociale è tutto all’esterno e che hanno tentato in questi due anni di ricostruire le proprie vite, oltre che i propri legami familiari.
In base alla legge sull’ordinamento penitenziario, la semilibertà è una modalità di esecuzione della pena che consente di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto penitenziario per attività di lavoro, formative o comunque utili al reinserimento sociale, salvo poi tornare in carcere a passare la notte. Al di là della permanenza o meno dell’emergenza pandemica – resta comunque un’esigenza deflattiva fortissima considerato il livello di sovraffollamento – si è persa l’ennesima occasione per riflettere sul senso della pena e sulla possibilità di renderla più umana, oltre che più utile. E invece continuiamo a fare giganteschi passi indietro, manifestando un trend completamente opposto: si sono nuovamente superate le 56mila presenze, ben oltre non solo la capienza regolamentare, ma anche l’umanità.
Con la fine dello stato di emergenza gli ordini di arresto e l’esecuzione delle pene detentive, anche per misure cautelari e per pene molto brevi, sono ripresi in misura anche maggiore rispetto al passato a dimostrazione che la nostra società non ha imparato nulla.
La pandemia ha, con la sua complessità, reso palesi alcune delle più gravi criticità che caratterizzano l’universo penitenziario, a cominciare dal sovraffollamento e dalla mancanza di spazi adeguati, fino ad arrivare alle condizioni igienico-sanitarie precarie, alla carenza di spazi di socializzazione e all’obsolescenza non solo delle strutture carcerarie, ma anche delle stesse modalità di esecuzione della pena. Basti pensare che solo con lo scoppio della crisi sanitaria – e comunque con forte ritardo dall’inizio dell’emergenza – sono stati introdotti negli istituti dispositivi elettronici e smartphone per permettere alle persone detenute di comunicare con i propri cari in videochiamata, dovendo rinunciare ai colloqui di persona per un lungo periodo. Quest’opportunità non è poi stata mantenuta, nonostante sarebbe stata una grande occasione da cogliere per modernizzare un mondo che pare immutabile, incapace di far risocializzare chi è condannato, mentre fuori la vita scorre molto più velocemente e coglie quindi impreparati coloro che tornano in società anche dopo brevi periodi.
Allo stesso modo, la constatazione che non sussiste alcun pericolo per la sicurezza, ma che anzi l’esecuzione della pena può solo trarre giovamento da un percorso rieducativo che inizia e si conclude all’esterno, oltre che vicino ai propri cari, non è bastata a placare gli istinti repressivi e vendicativi del nostro ordinamento, inserendo i detenuti in semilibertà nuovamente nell’ambiente alienante del carcere. Quest’ultimo, infatti, non può che avere un effetto deleterio e criminogeno per chi è stato abituato, per due anni e mezzo, a vivere fuori, all’interno della società libera. In base alla legge sull’ordinamento penitenziario, infatti, i condannati e gli internati ammessi al regime di semilibertà sono assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome di istituti ordinari. Tuttavia, questo non accade quasi mai e così la permanenza con persone che scontano altre tipologie di pene e/o di regimi può rivelarsi non utile o addirittura in alcuni casi dannosa.
Siamo di fronte a istituzioni e a rappresentanti politici totalmente sordi di fronte alle grida di aiuto che provengono dall’universo penitenziario, le cui criticità e tensioni sono oramai diventate ingestibili. Ma siamo anche di fronte alla completa irragionevolezza, se si pensa che una simile decisione sarebbe servita quantomeno ad avvicinarsi – ma non a raggiungerla si intende – alla capienza regolamentare degli istituti. Continuiamo a portare avanti comportamenti contrari alla proclamata intenzione di rieducazione, eppure non bastano le parole.