È di pochi mesi fa la sentenza che ha condannato a un anno di carcere e 15mila euro di multa un impresario agricolo siciliano per aver ripiantato dei semi brevettati da Sygenta, una multinazionale svizzera che si occupa di sementi e pesticidi e che con Monsanto e Pioneer Dupont detiene il 53% del mercato globale. Se qualche anno fa ci avessero parlato di un brevetto sulle sementi, probabilmente non ci avremmo creduto, affezionati all’idea di semi che si scambiano tra i contadini e vengono coltivati dagli stessi, secondo un principio di libertà tipico della natura, alle cui leggi dovremmo sottostare.
Eppure, la battaglia per sancire la rilevanza della cosiddetta pirateria dei semi è iniziata anni fa, con l’intento di stabilire un vero e proprio copyright: chi lo detiene controlla la propagazione e la commercializzazione della varietà protetta. Ad ogni seme deve corrispondere una sola pianta: questo quanto affermato da Van Kamper, amministratore delegato di AIB (Anti-Infringement bureau for intellectual property rights on plant material), un’associazione che raggruppa i maggiori produttori di sementi e alcuni giganti della chimica, che ha salutato con favore la sentenza che è prima nel suo genere in Italia e potrebbe segnare un cambiamento epocale. Lo stesso ha anche affermato che la grande vittoria sta nel fatto che questo verdetto pone tutti i coltivatori in uguali condizioni, prevenendo così il rischio di concorrenza sleale.
In verità, si tratta di un settore in cui la concorrenza è oramai appiattita poiché i tre maggiori produttori mondiali si trovano in regime di oligopolio e ai coltivatori e piccoli impresari non resta altra scelta che optare per i prodotti uniformati e standardizzati che oramai i consumatori si sono abituati a vedere sugli scaffali. Infatti, come dichiara Slow Food, oggi si coltivano solo 150 delle 80mila specie commestibili: con la trasformazione del mondo agricolo in una vera e propria industria si è verificata una completa omogeneizzazione, con erosione della biodiversità vegetale. Immettere sul mercato un prodotto che non sia standardizzato significa quindi lasciarlo sugli scaffali a marcire poiché non corrisponde al prototipo cui il consumatore è abituato.
La grande distribuzione fagocita così tutti le piccole e medie imprese e i semi commerciali, ossia brevettati, soppiantano definitivamente quelli rurali, vale a dire quelli scambiati dalle comunità contadine. Si utilizza uno strumento tipico dell’industria, il brevetto appunto, che sancisce la priorità e il diritto esclusivo di sfruttamento industriale di un’invenzione. Eppure parlare di un’invenzione per i semi desta qualche perplessità: Van Kamper ha sottolineato che le aziende produttrici di ortaggi investono ogni anno tra il 20 e il 25% delle vendite in ricerca e sviluppo, dunque chi gode di questa opera di innovazione deve pagare, diversamente si macchia di un reato. Tuttavia, l’opera di ricerca e sviluppo di cui parla l’amministratore delegato di AIB trova le proprie basi in un’attività di generazioni di contadini che hanno lavorato all’insegna della libertà e dell’eticità. In questo caso, ciò che si brevetta non è frutto di un’illuminazione che viene dal nulla o di una sperimentazione laboratoriale. È il peso del denaro che si impone sulla natura e ne devia le leggi. L’attività di ricerca e sviluppo di cui parliamo era infatti finanziata da fondi pubblici, poi scomparsi e sostituiti da investitori privati, divenuti padroni dell’intero settore.
L’origine di questa lunga battaglia è rinvenibile in un incontro del 1994 in cui il WTO, l’Organizzazione Mondiale del commercio, decretò la brevettabilità degli organismi viventi: in America si sono già succedute sentenze analoghe a quella italiana in cui per Monsanto è stato sancito il diritto a risarcimenti di decine di migliaia di dollari. Le multinazionali che vendono e brevettano sementi basano il loro potere su un ricatto molto semplice: ripiantare un seme commerciale non è utile poiché il prodotto avrà caratteristiche diverse, sarà meno resistente e dunque avrà una vendibilità inferiore in base alle leggi che governano il mercato. Oltretutto, con i semi venduti dalle grandi aziende sarà necessario utilizzare i loro pesticidi e fertilizzanti perché il prodotto cresca in maniera soddisfacente, dunque tutto funziona in modo tale da incrementare il profitto di pochi. Tuttavia, se questo disincentivo non dovesse essere sufficiente, intervengono gli strumenti di repressione e l’articolo 517 ter del Codice Penale che punisce la fabbricazione e il commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale.
Ma se già normalmente il terreno dei brevetti e delle proprietà industriali è molto scivoloso poiché si tratta di strumenti introdotti solo di recente dal legislatore, in questo caso la ricerca dei cosiddetti pirati si rivela ancora più difficile poiché bisogna confrontare i semi venduti con i prodotti immessi sul mercato e, laddove non combacino, avviare ricerche specifiche nelle zone di produzione interessate. La provenienza di minuscole piantine è, però, davvero difficile da stabilire, e l’onere della prova che pesa sui produttori locali è molto gravoso, senza considerare che i semi possono spostarsi con folate di vento e nel proprio terreno possono crescere piantine da sementi brevettate solo perché li utilizza il proprio vicino.
Le complicazioni, dunque, sono molte. E pensare che da bambini ci hanno insegnato che per fare un albero ci vuole un seme, e per fare un seme ci vuole un frutto: oggi non è così semplice e dietro il gesto più antico e naturale del mondo può nascondersi un reato, in una realtà in cui tutto ciò che può produrre profitto è privatizzato, trasformando così beni comuni in beni di largo consumo sotto il controllo dell’industria.