Se penso alla parola dignità penso a Michela Murgia. Quella di Michela Murgia è la dignità, ormai persa, del valore che diamo alla malattia e alla morte nella contemporaneità di una società che inneggia all’immortalità.
Vivendo da anni, dico vivere perché lavorare è riduttivo, tra le mura degli ospedali, di storie come quella di Michela Murgia ne vedo molte. Ognuna di queste, in quanto di esseri umani propri di unicità, non è mai sovrapponibile alle altre. Non sono solo storie di malattia ma veri e propri insegnamenti di vita.
Chi esprime pietismo, compassione, dispiacere non ha capito il senso profondo del messaggio di Michela Murgia dalla quale trapela, ancora una volta, una delle grandi qualità che la contraddistinguono. Una qualità rara al giorno d’oggi: la consapevolezza. Essere consapevoli del proprio ruolo nel mondo, delle proprie idee, delle proprie battaglie, del proprio percorso e della direzione verso la quale andare. Tracciare il ricordo preciso del proprio io, da voler lasciare al mondo.
La consapevolezza, profonda, di chi siamo non ci farà mai scendere a compromessi che denaturano la nostra persona e ci renderà donne e uomini senza un prezzo. Prego di far accettare alle persone che mi amano quello che accadrà. Da questa frase della sua intervista, si evince che lei lo ha già fatto e incarna proprio la consapevolezza sopracitata.
Penso a una ragazza che conobbi ai tempi del mio tirocinio in sala operatoria; incinta con tumore in stadio avanzato alla vescica. Sarebbe stata pronta a morire piuttosto che mettere in pericolo suo figlio ed era totalmente consapevole delle conseguenze di questa sua scelta.
Per chi ci è intorno, spesso, è difficile accettare decisioni così forti ma il rispetto delle volontà altrui deve prevalere, sempre. Mio padre, un uomo sano di 63 anni, qualche mese orsono mi ha messo tra le mani il suo testamento biologico. Documento che tutti e a qualsiasi età dovremmo compilare. Sono la garante delle volontà di mio padre e custodisco quel foglio in una cartelletta colorata. L’accettazione delle volontà dell’altro, dopotutto, è la più alta forma di amore.
Pretendere di intrappolare l’idea di una persona in un corpo terreno che non vuole è come rinchiuderla in una prigione. Ho visto, quotidianamente, nel mio lavoro persone imprigionate nell’accanimento terapeutico voluto da altri e ho fatto anche io, personalmente, la mia scelta.
Murgia non considera quella con la malattia una guerra. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. Ha totalmente ragione.
Il vocabolario della malattia è molto scarno, non si utilizza abbastanza, è scarsamente diffuso ma deve essere un vocabolario senza allarmismi, speranze, miti inesistenti. Solo realtà.
Carl Gustav Jung, celebre psichiatra, disse: non sono quello che mi è successo, sono quello che ho scelto di essere. E decidere liberamente è un diritto sacrosanto di ogni uomo.
Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare. Sono stata sempre vicina ai radicali, a Marco Cappato. Murgia invoca la libera scelta sino alla fine e la dignità di vita anche nella malattia.
Le parole di questa donna mi fanno credere nella parte più bella di umanità. Quella che trovo anche nel mio lavoro. Un’umanità che tende verso la naturale espansione dell’universo, aperta all’accettazione. Accettazione degli altri, del diverso, della malattia. Quell’umanità che ripudia la chiusura, l’intolleranza, il bigottismo, il fascismo. Dopotutto, come dice Michela, non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai.