«Noi abbiamo un’Europa dove devo farmi dire da Macron quale deve essere il diametro delle zucchine che i miei pescatori possono pescare nei mari italiani». Sono lontani i tempi in cui Giorgia Meloni – al netto della gaffe sopracitata – inveiva un giorno sì e l’altro pure contro l’Unione Europea, quando avrebbe volentieri preso la stessa scialuppa su cui salpavano Boris Johnson e la Gran Bretagna, via da Bruxelles e dai dogmi a cui gli Stati membri devono in qualche maniera obbedire.
La campagna elettorale nella quale si sta impegnando la leader di Fratelli d’Italia è, infatti, un disperato tentativo di riconciliazione con i vertici dell’Unione, conscia che il sovranismo in cui si è sempre prodigata è, sì, la strada più facile per raccogliere voti ma la meno consigliata per governare. Con i sondaggi che non lasciano spazio alle speranze degli avversari, la Meloni sa che l’unica occasione che avrà di sedere a Palazzo Chigi passerà dai rapporti che sarà in grado di tessere con chi determina le regole del gioco, appunto, la UE e la NATO.
Allo stesso modo, sembra distante la riforma proposta nel 2018 per cancellare il riferimento al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali con cui FdI chiedeva – di fatto – l’uscita dal Mercato Unico e il ritorno a un’Italia sovrana di se stessa, contro il libero scambio, una prospettiva di difficile attuazione anche in caso di maggioranza assoluta alle Camere, con la componente di Forza Italia che potrebbe porre il proprio veto sulla questione, qualora dovesse – per assurdo – ripresentarsi.
Eppure, qualcosa non torna, in particolar modo per ciò che riguarda il tema dell’immigrazione. Il blocco navale – presente nel programma delle destre e rivendicato a più riprese dalla Meloni – rappresenta un’azione militare per impedire l’accesso e l’uscita di navi dai porti di un determinato territorio, una misura che violerebbe il principio di non-respingimento secondo l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, contraria anche allo stesso diritto dell’Unione Europea.
La destra a trazione sovranista mira a dare all’Italia un ruolo, in Europa, che sia libero da vincoli, una parte in causa disobbediente, sulla scia dell’Ungheria di Orbán. Peccato (per loro) che questa visione del duo Meloni-Salvini risulti inconciliabile con il necessario proseguimento delle opere del PNRR, già negato a Budapest per violazione dei principi attinenti lo Stato di diritto, attraverso il cosiddetto meccanismo di condizionalità. Se non puoi batterli, unisciti a loro, recita un vecchio detto, ed è a questo principio che sta cercando di attenersi la leader di Fratelli d’Italia.
A rendere ancor più improbabile la proposta estremista della Meloni è la gabbia formata dalla coalizione di centrodestra in cui, per mera opportunità, l’ex Ministro della Gioventù ha dovuto confluire. Rimasta all’opposizione del governo Draghi, FdI si trova a dover fare i conti con il liberismo promosso da Forza Italia e incoraggiato dalla Lega. Ipotesi di leggi quali la Flat Tax poco si sposano con il ruolo di destra sociale che ha sempre cercato di rappresentare.
Non è un caso che sia Berlusconi a proporre la tassazione unica al 23%, Salvini addirittura al 15, mentre Giorgia attende senza sbilanciarsi. Meloni sa bene che, dal prossimo 25 settembre, la propria agenda coinciderà spesso con quella di Bruxelles e, dunque, con quella dei suoi alleati già allineati alla UE, viste le loro recenti esperienze di governo. Viene da domandarsi, però, chi rappresenterà quella fetta di elettorato sedotto prima da Salvini, poi proprio dalla Meloni, a cui venivano promesse politiche di tipo sociale? Di destra – e dunque che condividiamo ben poco – ma di una destra sociale.
Restando in tema Flat Tax, ad esempio, si fa profonda difficoltà a capire come un partito che parlava di voler determinare da sé il diametro delle italianissime zucchine di mare possa guardare con interesse a quella che altro non è che una patrimoniale al contrario, con i poveri – e dunque quei piccoli imprenditori e le imprese familiari a cui Meloni si è sempre rivolta – a rimpinzare le tasche dello Stato a vantaggio delle mega-imprese dei ricchi.
A tal proposito, è fuori di testa anche l’idea di muovere guerra al Reddito di Cittadinanza proponendo, in cambio, una riduzione del carico fiscale alle imprese in grado di assumere personale, senza capire che le due misure non sono alternative ma complementari. Il Jobs Act voluto da Renzi nel 2016 basava i propri principi su un concetto molto simile, eppure, nonostante i 30 miliardi stanziati alle aziende, riuscì a produrre solo un lieve rigonfiamento dei dati relativi all’occupazione grazie ai tirocini e ai contratti su prestazione. Nulla, dunque, che abbia mai generato occupazione, ricchezza e contrastato disoccupazione e povertà.
In una recente intervista rilasciata ai colleghi de Il Manifesto, il dott. Domenico De Masi – storicamente vicino al MoVimento 5 Stelle – ha centrato il nocciolo della questione: «Nonostante lei abbia più voti, Salvini e Berlusconi hanno convertito Meloni al liberismo. […] Alle elezioni avremo tre destre e nessuna sinistra. Questo è il vero problema per cui Meloni può permettersi di dire queste cose».
Tre destre e nessuna sinistra, tre grandi blocchi pronti a proseguire nell’azione di garanzia verso banche e multinazionali, che si tratti di un governo a trazione sovranista o un rimpasto che vedrà – ancora una volta – tutti dentro, uniti dalle manovre di un banchiere. Tre destre e nessuna sinistra ma, soprattutto, tre tutori delle politiche liberiste e nessun difensore delle politiche sociali, le uniche veramente necessarie a un Paese che vede sempre più persone annoverarsi tra i nuovi poveri.