C’è una tematica che nel mondo scolastico sta diventando uno degli obiettivi formativi più importanti, almeno sulla carta: quella dell’inclusione. In parole povere, questo termine consiste nell’abbattimento delle barriere tra uno studente affetto da disabilità fisica e/o cognitiva o uno studente proveniente da un diverso background culturale e chi, invece, è in linea con le competenze cognitive, linguistiche e comportamentali stabilite dal programma ministeriale.
Mentre in passato le forme assistenziali che un istituto scolastico doveva obbligatoriamente attuare con insegnanti di sostegno e/o figure di educatori erano rivolte soltanto verso le disabilità accertate e coperte dalla legge 104/1992, oggi rientrano nei BES (Bisogni Educativi Speciali) anche gli studenti con ritardi lievi, gli studenti con DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) come dislessia, discalculia, disgrafia, i quali hanno diritto, grazie alla legge 170/2010, a tutele con misure dispensative (uno studente dislessico potrebbe essere esentato dal leggere ad alta voce in classe) o strumenti compensativi (come tablet, sintetizzatori vocali, programmi di videoscrittura), ma anche gli studenti che manifestino altri disturbi evolutivi che non rientrano né in una disabilità accertata né in DSA o gli studenti con uno svantaggio socioeconomico. Questo quadro, ampio e pieno di sfaccettature, rende il corpo docenti responsabile, soprattutto negli ultimi due casi di BES, della decisione di adottare o meno misure compensative, con un PDP (Piano Didattico Compensativo), quindi di dover o meno ricorrere ai fondi della scuola – che per alcuni aspetti tende ad assomigliare sempre più a un’azienda – o lasciar correre, abbandonando il ragazzo quasi al suo destino di studente in partenza svantaggiato ma in potenza con capacità di recupero, se applicati i metodi educativi del caso.
In una nazione ideale, non certo la nostra, avere uno studente con dei BES è certamente, e senza retorica, una ricchezza per quella piccola comunità di futuri cittadini che è il micro-mondo classe. Il confronto con delle realtà né più né meno fortunate delle proprie ma semplicemente diverse è una buona palestra per esercitare l’empatia, il vivere comune, per compattare il gruppo, scoprirsi altruisti per forza e, a furia di esserlo forzatamente, diventarlo di indole. Questo aspetto, in parte, rientra nel processo inclusivo che ogni scuola dovrebbe applicare, abbastanza utopico nella maggior parte dei casi se si dovesse verificare l’assenza del personaggio chiave che permette l’integrazione e quindi l’inclusione scolastica: l’insegnante di sostegno. Senza esagerare, possiamo dire che questa figura, per la sua funzione da ponte tra lo studente e la classe, forse è la più importante di tutto il corpo docenti e ciò nonostante è di fatto la Cenerentola della scuola italiana. Troppe cattedre scoperte, pochi gli abilitati specializzati, si assiste a fenomeni volti a tamponare la carenza come l’assumere insegnanti o tecnici di laboratori di III fascia, quella più precaria della scuola pubblica o, addirittura, a dare l’incarico a personale infermieristico, di certo non adeguatamente formato per affiancare uno studente. Soluzioni di fortuna pur di non lasciare troppo scoperti gli alunni che ne necessitano: mentre ogni inizio di un nuovo anno scolastico, al di là delle preoccupazioni del caro-scuola (di cui abbiamo approfondito anche noi qui), per la maggior parte delle famiglie è accompagnato dal rientro alle normali attività curriculari e paracurriculari che, oltre al compito cardine di educare lo studente, alleggeriscono anche il carico genitoriale, per la famiglia di un alunno affetto da disabilità, questo è l’inizio di un calvario che vede, da settembre a ottobre inoltrato nella migliore delle ipotesi, madri e padri nello sconforto di non avere un insegnante di sostegno a cui affidare il proprio ragazzo nelle ore di lezione. Durante questa trafila immane, soprattutto da un punto di vista psicologico, i genitori, spesso in realtà soltanto le madri, che rinunciano a una carriera professionale per occuparsi pienamente della vita del figlio, si ritrovano nella solitudine delle sale d’aspetto delle segreterie d’istituto in attesa di un incontro con il dirigente per capire perché, ad anno iniziato, il proprio ragazzo non possa frequentare nemmeno la metà delle ore dei suoi compagni di classe.
Questo avviene perché è obiettivamente sbagliato il sistema di reclutamento del corpo docenti di sostegno: nonostante sia cambiata la norma che permetteva soltanto agli insegnanti già abilitati sulla propria materia di specializzarsi con dei corsi mirati sul sostegno, pratica che lo rendeva, tra l’altro, una scappatoia per ottenere più punti utili in graduatoria e passare definitivamente alla propria materia – creando così generazioni di insegnanti di sostegno fondamentalmente demotivati e poco compenetrati al percorso educativo e integrativo dello studente –, oggi la modalità con cui vengono designati i docenti è ancora superficiale. Le segreterie, una volta esaurite le graduatorie degli abilitati specializzati e non di II fascia passano agli insegnanti di III, nonostante questi sulla carta non siano competenti abbastanza per occuparsi della formazione specifica di uno studente con BES. Questo comporta una notevole perdita di tempo, perché tutto ciò accade a lezioni già inoltrate, con conseguenti ricadute sull’avvio del percorso scolastico dell’alunno, a meno che il suo docente non sia di ruolo e quindi sia stato confermato. Cosa che, nella formazione di un giovane disabile accade in media per un paio di anni sui tredici fino al diploma. Sembra una beffa: è come se si partisse doppiamente svantaggiati, su un binario parallelo che non permetterà mai non di recuperare, perché non è una gara a chi arriva per primo al traguardo, ma almeno di far in modo che le attività possano essere comprese e svolte insieme, studenti con BES e non, in modo da non creare ulteriori divari tra il singolo e la classe.
È recente la notizia che il Ministro Bussetti, in videochat con il pubblico del Tg1, abbia espresso la decisione di avviare nuovi corsi di specializzazione al sostegno in nome di una maggiore inclusione. Sarebbe bello che solo questo bastasse senza creare ulteriori caos burocratici che da sempre accompagnano le graduatorie degli insegnanti, sarebbe ancora più bello che, intanto, a partire dal prossimo anno scolastico i docenti fossero assegnati a partire dal primo giorno. L’inclusione non è una parola con cui riempire i programmi ministeriali: è un percorso concreto che dovrebbe accompagnare il ragazzo e i propri compagni dal primo suono della campanella.