Rosso, arancione e giallo. Non si tratta di un semaforo venuto male, ma dei colori che caratterizzano le zone in cui l’Italia risulta divisa dopo l’ultimo DPCM del Premier Giuseppe Conte entrato in vigore il 6 novembre scorso. Ulteriori restrizioni sono dunque attualmente valide sull’intero territorio nazionale, a cui si aggiungono regole più ferree nelle zone arancioni e rosse, sottoposte a uno pseudo-lockdown che, però, non prevede la chiusura delle attività produttive maggiori. E mentre il Comitato Tecnico Scientifico preannuncia che il picco della pandemia si toccherà probabilmente intorno al 20 dicembre, tante riflessioni restano da fare sul modo in cui molte regioni arriveranno a questa data e, soprattutto, sull’adeguatezza della classe politica a prendere le decisioni opportune, oltre che a essere in grado di risponderne di fronte all’intero Paese, che non può che sentirsi confuso.
Il decreto in questione, infatti, è entrato in vigore con un certo ritardo rispetto a quanto previsto – e, forse, necessario per arginare più efficacemente il virus – in gran parte perché mancava un accordo sulle misure da prendere, in particolare sulla divisione in zone che pone i singoli territori in condizioni molto differenti tra loro. E, così, si sono susseguite varie conferenze Stato-Regioni che hanno portato a tensione, tentativi di mediazione e all’attacco delle opposizioni che, in modo non dissimile da come stanno facendo sin dall’inizio dell’emergenza, non hanno perso occasione per racimolare un po’ di consenso dando man forte ai Presidenti schierati contro il Governo. Come se non bastasse, al ritardo accumulato dalle istituzioni, si è aggiunto il fatto che i dati di cui si è discusso risalivano già a un paio di settimane prima, rischiando dunque, con il passare dei giorni, di diventare sempre più inaffidabili, stando alla velocità di diffusione del virus. Uno spreco di tempo prezioso che non potevamo e non possiamo permetterci, in un momento nel quale si contano centinaia di morti da COVID-19 e decine di migliaia di nuovi contagiati al giorno, le cui vite dovrebbero valere ben più degli immancabili protagonismi politici.
L’individuazione delle zone in cui suddividere le regioni non è avvenuta solo attraverso l’indice Rt, ma mediante un totale di 21 parametri, più volte definiti scientifici dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Tra questi, spiccano quelli che riguardano l’occupazione delle terapie intensive, il tempo trascorso tra il sorgere dei sintomi e la diagnosi, il totale di pazienti che si sono presentati al pronto soccorso con quadri sindromici riconducibili alla COVID, il numero di nuovi focolai, la capacità di accertamento diagnostico e di gestione dei contatti, la tenuta dei servizi sanitari e il numero di figure professionali dedicate al contact-tracing. Tutti elementi che non dovrebbero lasciare margini di dubbio, ma che non hanno mancato di provocare grosse sorprese. E, così, regioni come la Campania, in cui i medici invocano il lockdown perché non sono più in grado di gestire l’emergenza, costretti ad assistere i pazienti a bordo delle ambulanze, e per la quale lo stesso Istituto Superiore della Sanità denuncia un notevole ritardo di notifica che rende inaffidabili i dati, finiscono nella zona a basso rischio, mentre il Presidente De Luca è troppo impegnato a portare avanti i suoi siparietti.
In realtà, il sistema di raccolta dati e tracciamento è andato in tilt nella maggior parte delle regioni e così, anche se il monitoraggio è tenuto da tre rappresentanti scelti da ciascun ente regionale, i Presidenti hanno denunciato favoritismi ed errori nelle misure varate, minacciando numerosi ricorsi. A dimostrazione dell’inadeguatezza di tutte le parti politiche, basti pensare che il governatore della Regione Calabria Spirlì ha prima polemizzato per la classificazione di zona a massimo rischio, salvo poi rendersi conto che il commissario alla sanità Cotticelli non aveva mai elaborato un piano per affrontare l’epidemia ed era addirittura inconsapevole che spettasse a lui farlo.
Quando i 21 parametri utilizzati sono stati resi pubblici, non è mancata molta preoccupazione tra gli addetti ai lavori, che hanno denunciato la possibilità di influire sugli indicatori con piccoli accorgimenti, come – dice il microbiologo di Padova Crisanti – non ricoverare o rimandare a casa persone che sono border-line. Chiaramente, ciò accade quando la politica vive come un successo personale il non finire in una zona rossa, preoccupandosi più del proprio consenso che non della salute pubblica che, invece, dovrebbe essere prioritaria. Altro indicatore determinante è stato quello riguardante i posti occupati in terapia intensiva rispetto al totale: innanzitutto, c’è una grossa differenza tra posti presenti e posti attivabili, che però sembra non essere stata considerata in alcun modo. Inoltre, come sostenuto da molti del settore, si finisce in terapia intensiva solitamente 10-15 giorni dopo il contagio, dunque l’indicatore finisce per descrivere una situazione di ben due settimane prima.
Se l’Istituto Superiore della Sanità precisa che lo stesso indice Rt è affidabile solo quando le rilevazioni dell’esito dei tamponi sono particolarmente precise in relazione alla data in cui risultano effettuati, e se la tenuta del sistema si basa sulla capacità di elaborare un’enorme mole di dati e di raccoglierli con molta accuratezza, allora un dubbio resta sui livelli di efficienza delle Regioni che sono troppo diversificati tra loro per adottare un meccanismo che finisce per essere eccessivamente basato su numeri formali. In questo modo, i territori finiscono nelle varie zone perché i dati dicono così, senza che nessuna delle parti politiche si preoccupi di verificare che essi corrispondano alla realtà.
Eccessive oscillazioni dell’ultimo minuto nei dati forniti al Governo e altrettante discrasie tra quanto dichiarato dai medici nei reparti e quanto comunicato dalle Regioni sono state notate anche dalle Procure di Napoli e Genova che hanno aperto appositi fascicoli di indagine per accertarsi che non ci siano state manomissioni e criticità taciute. Intanto, dal 10 novembre le zone arancioni aumentano e la stessa Liguria abbandona la propria posizione di regione a basso rischio.
Privilegiando il dato formale rispetto a quello sostanziale, un meccanismo previsto come razionale e automatico finisce, in realtà, per prestare il fianco a condizionamenti e strategie politiche, rendendo i cittadini vittime di una pietosa trattativa e di un vergognoso rimpallo di responsabilità. Le Regioni invocano a gran voce più autonomia, salvo poi riversare la responsabilità sul Governo per le scelte più impopolari. Il Governo non è da meno e si dimostra incapace di adottare le misure necessarie ordinatamente e con la fermezza che esse richiedono. Ancora una volta, la salute pubblica e il bene collettivo diventano secondari di fronte a opportunismi politici, negoziando sulla pelle di tutti noi. Se mai arriveremo alla fine di questa tragica parentesi, dovranno rendercene conto.