Sciagurati. Li ha appellati così l’OMS i migliaia di tifosi che hanno invaso la città partenopea subito dopo il triplice fischio della finale di Coppa Italia. Una condanna decisa, quella giunta per bocca del direttore aggiunto Ranieri Guerra, a cui avremmo voluto poter replicare, e invece… E, invece, stavolta ci accodiamo anche noi alla polemica, incazzati come siamo da tanta leggerezza, da quel fianco prestato alla macchina del fango di cui volutamente ci siamo macchiati in una notte di pura follia.
Non si tratta di sputtanapoli, di quella pratica tutta italiana volta a screditare e condannare una città per il solo fatto di essere storicamente inespugnabile. E non è nemmeno quella quarantena alla napoletana figlia di riprese montate ad arte per raccontare una terra strafottente e senza regole. Stavolta, si tratta dell’ennesima occasione in cui non abbiamo saputo trattenerci, finendo con il farla volgarmente fuori dal vaso. Un fallimento sull’intera linea.
Le immagini dei festanti le abbiamo viste tutti. Gli schiamazzi fino a notte fonda, le piazze invase, i monumenti danneggiati hanno trasformato la città in un circo imbarazzante e cafone che, di colpo, ha cancellato la poeticità dei balconi, il brivido di un abbraccio invocato nelle sere più buie degli ultimi anni, la colonna sonora di una speranza tradita ogni pomeriggio allo scoccare delle 18, quando il cuore si fermava per un po’ nel tentativo di contare, di capire, di darsi una spiegazione. Mesi di dolore annegati in una fontana storica oggi vandalizzata, nei colpi di pistola esplosi in pieno centro ferendo un uomo e l’intera città.
Una ferita che, tuttavia, sembra far meno male di quanti a questo gioco non vogliono stare e manifestano la propria insofferenza a un modo incosciente e irrispettoso di vivere l’esultanza e la socialità. Li chiamano moralisti e sono quelli definiti peggio di chi ha approfittato delle celebrazioni per fare furti e rapine, quelli la cui gioia è esplosa nello spazio ristretto del proprio salotto di casa. Lì dove doveva nascere e morire nel giro di poche ore perché vincere è bello, ma è pur sempre una partita. Tra l’altro, uno spettacolo senza pubblico e con il lutto al braccio. Tutto dimenticato: sono bastati appena novanta minuti. In fondo, il calcio è sempre stato lo specchio del Paese.
Quella che ha seguito Napoli-Juventus è, infatti, soltanto la conseguenza più prevedibile di una narrazione che è cambiata con l’avvento della cosiddetta Fase 2. Immagini che fanno male, frutto di un messaggio sbagliato a cui ci hanno abituato con sempre più insistenza: dal bollettino della Protezione Civile reso noto soltanto online, come a declassare i nuovi morti già così fuori tempo, alla riapertura necessaria e imminente, a tutti i costi, indiscriminata. Perché la gente deve tornare a vivere. Pure se rischia di ammalarsi.
I controlli sono spariti. Nessun drone, nessuna volante, nessuna divisa pronta a intervenire. Locali pieni, mascherine alternative, assembramenti in ogni dove. Politici, come quelli fascisti visti a Roma qualche settimana fa, ma anche ludici, come quelli sui Navigli o sulle spiagge liguri. Senza dimenticare le folle radunatesi per il passaggio delle frecce tricolore. Una narrazione, insomma, che ha mutato il suo tono con il trascorrere dei giorni, da quel 4 maggio che doveva sapere di ripartenza e, invece, è parso un resettaggio, un tentativo mistificatore di riprendere da dove eravamo rimasti, dimenticando però che nulla è e può essere come prima. Dimenticando che dove eravamo rimasti ci stava portando esattamente a dove siamo: sull’orlo del baratro. Per questo, era necessario tornare a parlare di pallone, di tifo più che di sport, affinché i contagi – che sono ancora tanti – smettessero di essere così roboanti, affinché medici e infermieri sparissero dai radar dell’eroismo e si ricominciasse a discutere di vacanze, partite rubate e dolce vita.
Basta terrorismo sul virus, scriveva il Sindaco de Magistris appena pochi giorni fa, invocando un lavoro immenso sulla sanità pubblica. Le persone non possono vivere nell’incubo della malattia e rimanere schiave della paura. Lui, che per mesi – e a a giusta ragione – ha vantato il primato della città in termini di chiusura e oculatezza nella gestione dell’emergenza, ha di colpo dimenticato il reale motivo di quello stop anticipato, una mossa forzata dal rischio ecatombe che ha fatto tremare le gambe del Presidente di Regione, lo sceriffo, l’uomo tutto d’un pezzo, quello che mercoledì ha riposto il lanciafiamme in soffitta e si è limitato a un post di congratulazioni alla squadra. Esattamente come il Primo Cittadino. Peccato che la tanto agognata collaborazione tra le parti sia arrivata soltanto adesso e in quest’occasione. Qualcuno lo chiamerebbe populismo, qualcun altro contagio della felicità. E, invece, quello che oggi mette d’accordo le istituzioni è un fallimento grave di cui devono assumersi la piena responsabilità. Soprattutto dopo i proclami e una campagna elettorale iniziata con sin troppo anticipo.
Soltanto pochi mesi fa, di Napoli parlava il mondo, incantato dai canti che erano una sola voce, da un panaro solidale che significava opportunità per chi non ne aveva più, dalla mobilitazione immediata ed efficace di associazioni e volontari che sfidavano il pericolo per colmare le infinite falle create da un sistema schiacciasassi. Oggi, invece, si parla d’altro, si parla di scelleratezza e si spera, nelle prossime settimane, di non ricevere alcuna cattiva notizia. Nessuno, però, ha pensato di condannare le immagini dei tifosi che quel mondo adesso lo destabilizzano, mentre conta ancora i caduti di una guerra in corsia, l’assenza totale di pugno duro, di autorità capaci di prevenire anziché curare. Addirittura, chi si è sentito sotto accusa ha asserito l’impossibilità di intervento, citando persino i caschi blu, i soli capaci di fermare l’euforia: eppure, quando si è trattato di studenti, lavoratori, migranti o detenuti, di tutti quelli che hanno manifestato per i propri diritti, il manganello è sempre stato pronto, i lacrimogeni pure.
Attenzione, non stiamo invocando violenza, la nostra è una pura constatazione dei fatti. L’amara consapevolezza che con la scusa dello sport, della passione, della città dalle emozioni forti, ci distraggano dall’infelicità a cui siamo atavicamente condannati, dall’insufficienza delle risposte per le quali non sempre poniamo le giuste domande. Con la scusa della vittoria sulla Vecchia Signora, ci ripropongono la ridicola storia del riscatto del Meridione, la diatriba Nord-Sud, quell’avversità alimentata da sempre e per sempre perché divide et impera non ha mai smesso di dare i suoi frutti. Un gioco a cui, tristemente, ci prestiamo ogni volta.
Napoli è un faro e i suoi abitanti siano l’energia solare di un nuovo cammino, duro, ma di vita. Anche questo scriveva il Sindaco a inizio settimana. Se il cammino è quello intrapreso mercoledì sera, però, forse è meglio fare un passo indietro e capire fino e a che punto possiamo dare noi inizio a un percorso alternativo.
Moralisti o coscienziosi: fate voi, il confine non è poi così labile. Noi, intanto, difendiamo la città. Proprio come quel coro tanto caro agli sciagurati.