500mila persone rischiano il licenziamento a partire dal primo luglio. 500mila famiglie, tra un mese, potranno trovarsi in difficoltà per andare avanti, perdendo l’unica tutela disposta nei loro confronti durante l’ultimo anno di pandemia e conseguente crisi economica.
Il 30 giugno 2021 – in base al neolicenziato Decreto Sostegni bis – non sarà più in vigore la disposizione che prevede il divieto generalizzato dei licenziamenti e, così, le imprese che ricorreranno alla cassa integrazione Covid non saranno più obbligate a non effettuare riduzioni del personale. In compenso, è prevista una tutela molto più blanda, ossia la possibilità per le aziende coinvolte di usufruire della cassa integrazione guadagni ordinaria o straordinaria senza pagare i contributi previsti purché non licenzino. Si tratta, tuttavia, di una mera facoltà che gli imprenditori potranno trovare più o meno conveniente di un congedo.
Questo è quanto comunicato dal Governo il 24 maggio scorso e sarebbe già motivo di indignazione. Ma c’è di più: il 20 maggio, il Ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva assicurato, durante una conferenza stampa, che il blocco dei licenziamenti sarebbe stato mantenuto fino al 28 agosto per tutelare al meglio i lavoratori. La sua dichiarazione, però, aveva provocato molte polemiche ed era stata definita dal Presidente di Confindustria Carlo Bonomi un’imboscata, un cambio di metodo inaspettato e inaccettabile. Addirittura, la Sottosegretaria al Lavoro della Lega Tiziana Nisini aveva accusato il Ministro di aver rotto un patto con le aziende, poiché il Decreto Sostegni prevedeva il blocco per sole 13 settimane. Le pressioni erano state tali che nel testo definitivo la parte relativa al blocco dei licenziamenti è stata successivamente eliminata così da assecondare, ancora una volta, i capricci delle imprese.
Al di là del fatto che è sufficiente un preminente interesse pubblico per prorogare un provvedimento preso – in questo caso, la persistenza della crisi economica – perché i fatti lo rendono necessario, ciò che è ancora più grave è che si è convinti della necessità di coinvolgere nelle decisioni governative realtà che non rappresentano gli interessi della collettività, bensì esclusivamente di una parte di essa e, in particolare, delle sole aziende. Tale decisione non dovrebbe forse essere definita un’imboscata dai 500mila lavoratori che rischiano di perdere il lavoro e a cui il Ministro Orlando – che dovrebbe tutelarli – solo pochi giorni prima aveva assicurato pubblicamente che non avrebbero rischiato la disoccupazione?
Ancora una volta, Confindustria è interlocutore privilegiato delle forze politiche e incide notevolmente sulle scelte di governo e sulla sorte di migliaia di famiglie. Le aziende sono considerate benefattrici che permettono ad altri di lavorare e che, talvolta, concedono loro addirittura di farlo rispettando i propri diritti. Eppure, il lavoro non dovrebbe essere un lusso, così come la dignità umana. Purtroppo avevamo già avuto prova – se ancora ce ne fosse stato bisogno – del ruolo preminente che il profitto ha nell’orientare le scelte della nostra classe politica durante i primi mesi di pandemia. In quell’occasione, nonostante fosse stato previsto un lockdown totale per tutti gli italiani, moltissime attività avevano continuato a essere considerate essenziali, pur non essendolo affatto, solo perché c’era stata una grande opposizione di Confindustria nei confronti delle chiusure degli impianti produttivi. Il profitto, all’epoca, era valso molto di più della vita di migliaia di lavoratori, trattati come carne da macello, in un momento in cui il contagio era fuori controllo e gli ospedali al collasso.
Ma questo è soltanto l’ennesimo esempio delle logiche alla base delle politiche degli ultimi anni che hanno reso il lavoro sempre più improntato alla flessibilità, cancellando diritti, predisponendo rimedi minimi in caso di licenziamenti illegittimi, negando qualsiasi tutela nei confronti di lavoratori non rientranti nelle categorie tradizionali (basti pensare ai rider).
«La proroga non è certo ciò che serve al mondo del lavoro, perché è fonte di incertezza e rallenta i processi di riorganizzazione e riposizionamento di cui le imprese hanno bisogno per tornare a essere competitive»: ha dichiarato Maurizio Stirpe, Vicepresidente di Confindustria. Dunque, per essere competitive le industrie devono poter licenziare, lasciare in difficoltà migliaia di famiglie, assumere altri lavoratori a condizioni peggiori, pagare meno, produrre di più. E, così, gli uomini diventano meri ingranaggi di una macchina il cui volante è tenuto dal profitto, l’unico fine a cui votarsi, disumanizzandosi.
Si tratta di una vera e propria bomba sociale: ancora una volta, a pagarne le spese sono le classi più povere, coloro che hanno sofferto di più durante la pandemia, mentre pochissimi continuavano a guadagnare, sotto l’ala protettiva del Governo. Non solo nelle scelte politiche non è ravvisabile alcuna discontinuità, ma ora toccherà all’intera collettività farsi carico della situazione che va delineandosi. Il baratro è sempre più vicino.