Nelle credenze popolari hanno i vestiti strappati e i capelli neri e realizzano malefici solo per il gusto di farli. Nel nuovo immaginario comune, di chi è cresciuto a pane e Harry Potter, sono donne intelligenti, a volte buone, a volte crudeli. Ma, al di là di tutti i significati che ha assunto nel corso dei secoli, il termine strega, oggi, ha tanto a che fare con il potere, la spiritualità e anche il femminismo. Sembra un gioco, una leggenda delle superstizioni popolari, invece la stregoneria è una rivendicazione dei diritti. Ce lo spiega Sara Fuso, attivista femminista che si riappropria del termine e ci chiarisce cos’è la stregoneria oggi, nonché quanto sia legata al rispetto delle minoranze e delle culture che l’hanno vissuta. Nell’intervista ci parla della connessione tra il rispetto dei diritti umani e della natura, di quanto la società capitalista sfrutti le persone – in particolare le donne – così come sfrutta l’ambiente per trarne un guadagno. E ci ricorda cos’è il privilegio, perché tutti dovremmo riconoscerlo e metterlo in discussione.
Oggi possiamo riappropriarci del termine strega, scalfendo l’immaginario comune e rivendicando anche tutte quelle caratteristiche che erano legate alla vecchia concezione di questa figura, caratteristiche che rappresentano la nostra conquistata libertà. Chi sono, allora, le streghe femministe?
«Prima di tutto vorrei fare una distinzione tra la riappropriazione del termine strega e praticare la stregoneria. Reclamare la parola strega significa richiamare il potere femminile ed è un diritto delle donne farlo, come essere potenti, connesse con la propria intuizione, con la sacralità della femminilità, col potere interiore, quello soppresso dalla società patriarcale durante la caccia alle streghe, quando qualsiasi donna che mostrava intelletto o voglia di studiare, di sapere, veniva perseguitata. Quindi definirsi strega è un modo per non dimenticare la storia delle donne che, in nome della loro libertà, venivano perseguitate e uccise solo per il fatto di essere donne. Probabilmente tutte le persone che oggi si definiscono femministe sarebbero state accusate di stregoneria».
Mi piace molto il riferimento al potere. Il reale problema di quelle streghe era, in qualche modo, il loro custodire un sapere che rende potenti. Poi, se ci pensi, la strega nelle narrazioni più popolari è associata alla figura della matrigna, cioè la madre cattiva, l’opposto della mamma. Non credo sia un caso questo perché se il ruolo della donna si doveva esaurire nella maternità, questa potenza – che non era contro la maternità, ma semplicemente altro oltre a quello – finiva per essere una condanna.
«È vero, se pensiamo al termine strega senza influenze femministe viene in mente una donna che non si cura, una outsider, una relegata o, come dici tu, la matrigna, cioè qualcuno che non si prende cura degli altri o che semplicemente mette se stessa al primo posto, cosa che viene spesso criticata alle donne ancora oggi».
Che poi è paradossale perché le streghe erano prima di tutto guaritrici o levatrici, quindi esattamente l’opposto del non prendersi cura.
«Esatto ed è proprio così che vengono creati gli stigmi: ci viene dato un immaginario negativo, magari anche incoerente o totalmente opposto alla realtà proprio per demonizzare queste figure. Un’altra cosa che è importante dire è che oggi molte persone si stanno riappropriando del termine strega e che tante si stanno avvicinando alla stregoneria, anche con l’ultima ondata di femminismo. Ed è fondamentale vedere come quest’ultima sia legata alla politica e all’attivismo. Ci sono online tantissimi incantesimi contro le molestie o contro il successo di personaggi controversi. Per esempio molte streghe americane hanno fatto dei rituali contro l’amministrazione Trump oppure ci sono incantesimi legati ai movimenti come il Black Lives Matter».
Mi spieghi questa correlazione tra attivismo e stregoneria?
«La pratica della stregoneria è qualcosa che esiste all’interno della tradizione popolare, non è scritta ed è fortemente influenzata dalla società, dal patriarcato, dal razzismo e da tutte le oppressioni. Di conseguenza, anche praticare la stregoneria deve essere fatto in ottica intersezionale. Anche questa, poi, come altre cose, va decolonizzata. Diverse pratiche del neopaganesimo e della stregoneria moderna sono state rubate dalle closed practices di popolazioni e culture indigene di altri luoghi».
Il tuo femminismo non si ferma all’intersezionalità. Tu parli anche di ecologia, antispecismo, veganismo. Qual è la connessione tra il femminismo e tutti questi altri aspetti?
«Storicamente, si parte dalla seconda ondata del femminismo. L’ecofemminismo è nato nel momento in cui si è notata una correlazione tra il modo in cui venivano sfruttate le donne e il modo in cui viene sfruttata la natura. In particolare, nel modo in cui la società ignora l’apporto che entrambi danno all’umanità. Questo dipende ovviamente dalla società capitalista all’interno della quale, così come viene strumentalizzata la natura per avere un certo guadagno, vengono sfruttate le donne. Con le ondate successive del femminismo, questo discorso viene ampliato con l’antispecismo. Esso parte dal presupposto che tutti gli esseri viventi hanno lo stesso valore. Noi viviamo in una società specista che dà un’importanza diversa a un uomo e a un cane e, allo stesso modo, dà un’importanza diversa alla vita di un cane e a quella di un maiale perché uno lo consideriamo da compagnia, mentre dell’altro ci cibiamo. Anche questo aspetto dipende dalla cultura, ogni tradizione ha gli animali che considera commestibili, ma in ogni caso resta la differenza tra animali e umani e tra animali e animali.
L’antispecismo, e quindi anche il rifiuto del consumo di carne, è in opposizione al patriarcato, che sostiene che l’uomo forte debba cibarsi di carne. Questa associazione non appartiene solo al passato, ma è anche contemporanea: per esempio l’uomo non cucina però si occupa del barbecue perché la carne, la bistecca fanno virilità. Mentre, invece, la compassione per gli altri esseri viventi fa donna, la quale si prende cura degli altri, anche degli animali, mentre l’uomo li macella. Il femminismo è legato all’antispecismo proprio per questo, perché l’idea che c’è dietro al consumo di carne è patriarcale e legata alla mascolinità tossica. Essere antispecista e vegana è quindi per me collegato all’essere femminista, e ha un significato che tra l’altro all’inizio non conoscevo. Ho scoperto questi collegamenti solo dopo essere diventata vegetariana perché pensavo che gli animali avessero lo stesso valore e la loro vita meritasse lo stesso rispetto di quella degli umani. Poi però, scoprendo la correlazione tra femminismo e antispecismo, tutto ha acquisito un valore e un significato ancora maggiore».
Recentemente hai parlato di attivismo digitale, del fatto che oggi non serve più andare a protestare in piazza per fare movimento. Ci sono tanti altri modi, dalla divulgazione fino a un vero e proprio attivismo online. Quali sono i successi di questo nuovo modo di manifestare e quali sono le differenze col passato?
«Sicuramente l’attivismo digitale permette di raggiungere molte più persone di quelle alle quali parleresti in piazza. Essere connessi a tante persone è un successo per l’intero attivismo e per i diritti umani. Se ci pensi, tutte le organizzazioni non governative stanno mostrando la loro presenza su internet, sui social, che diventano anche veicolo di raccolte fondi. I social media hanno un potere enorme nell’unire le persone, basti pensare alla risonanza del Black Lives Matter, che è avvenuta durante la pandemia. Poi diventano veicolo per andare nelle piazze».
Però, se da un lato è più facile trovare più persone o le persone giuste a cui parlare, dall’altro magari non ti imbatti in coloro che sui social non entrano nella tua bolla ma per strada potresti incuriosire. Come rimediare?
«Con la bolla hai l’occasione di parlare a persone che sono interessate a certi temi sui quali però non sono educate e con i social hanno modo di avere accesso a quelle informazioni. Però, grazie al web e alla visibilità dentro la bolla, si arriva anche a parlare in piazza e con un pubblico ancora più grande e diversificato. Io, grazie al mio attivismo online, ho avuto la possibilità di parlare al Pride di Monza, quindi in qualche modo funziona».
Hai affrontato spesso il tema della mascolinità tossica e anche del fenomeno degli incel, che credo non si conosca abbastanza e di cui non si parla molto in Italia, ma che è anche pericoloso e da non prendere sottogamba. Qual è la tua esperienza in tal senso?
«Purtroppo non se ne parla a sufficienza, ma si tratta di una comunità abbastanza pericolosa. Sono gruppi di persone isolate che cercano di fare squadra su questi forum covo di misoginia e fascismo in cui però sfociano in messaggi terroristici o si insultano tra di loro e si giudicano a vicenda. Chiamano le donne NP, cioè non persone, e lanciano messaggi pericolosi. Per esempio postano le proprie foto per sentirsi giudicati dagli altri, spesso insultati, come per avallare quelle teorie sulla bruttezza che sostengono. Quando io ne ho parlato, il mio post e le mie foto sono finite in un forum di incel e hanno iniziato a giudicare anche il mio aspetto come NP e vedere le mie foto lì, per quanto non mi aspettassi nulla di diverso, mi ha fatto sentire in qualche modo violata».
Quel post è di un po’ di tempo fa, ma anche recentemente sei stata vittima di una gogna mediatica priva di filtri a causa di un cartello che hai portato durante una manifestazione. In quel caso non sei stata offensiva nei confronti di nessuno, hai solo sottolineato il privilegio di alcune categorie dicendo che è tempo che il potere non sia più solo nelle mani degli uomini bianchi etero cis e abili. Eppure, sei stata travolta dalle critiche. Non voglio analizzare il caso specifico, quanto invece il fatto che quando si fa notare il privilegio, viene sempre preso come un’accusa, un attacco personale. Perché?
«Lo dico da persona che ha tanti privilegi: sentirsi dire che si hanno dei vantaggi che non dipendono da te è una cosa difficile, non possiamo negarlo. Non mi sono meritata di essere bianca, per esempio, eppure ho tanti vantaggi per il fatto di essere nata così. E ho sempre saputo del razzismo, mi sono sempre resa conto, anche da piccola, degli svantaggi degli altri, ma prendere consapevolezza invece dei propri vantaggi è più difficile. Molte di quelle persone che si sentono attaccate non sono disinteressate ai diritti delle minoranze, ma fanno fatica a mettersi in discussione abbastanza da comprendere i propri privilegi. Viene un po’ vista come un’accusa, come una colpa, che all’inizio ti fa mettere sulla difensiva. Per questo, secondo me, è importante parlare di intersezionalità, per comprendere che ci sono diversi livelli di privilegi e di oppressioni che ogni persona può avere. Si tratta di un lavoro difficile e dinamico, che dobbiamo fare continuamente tutti su noi stessi».
Foto in copertina di Silvia Violante Rouge