Contributo a cura di Samantha O. Storchi.
Il primo Sonderkommando fu creato ad Auschwitz nel 1942 mentre un convoglio di ebrei polacchi doveva essere selezionato per le camere a gas. Tra i prigionieri di Auschwitz, i membri del Sonderkommando – la cosiddetta “squadra speciale” – furono quelli a cui le SS vollero sottrarre, più che a ogni altro, la possibilità di testimoniare. Il loro lavoro? Gestire, insieme ai tedeschi, lo sterminio di massa degli ebrei. Essere costretti a mentire a parenti e amici ed essere testimoni dei loro istanti finali. Veder entrare uomini, donne e bambini nelle camere a gas, sentirne le urla, i colpi e le agonie. Successivamente, tirare via i corpi e, a uno a uno, svestirli, pulirli ed estrarre i denti d’oro per il bottino del Reich. Introdurre i cadaveri nella fornace dei crematori, alimentare il fuoco col carbone, raccogliere le ceneri, frantumare le ossa, ammucchiarle e buttarle via. Mantenere questo ritmo disumano, ricominciando ogni giorno, sotto lo sguardo delle SS, sapendo che, prima o poi, anche loro sarebbero stati eliminati. Primo Levi, ne I Sommersi e i salvati, ribadisce come l’aver concepito e organizzato il Sonderkommando sia stato il crimine più demoniaco del nazionalsocialismo. “Dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegavano a tutto, perfino a distruggere se stessi.”
Che significava, per questi prigionieri, in condizioni così pietose, resistere? Significava, forse, ribellarsi? I tentativi di ribellione erano falliti tutti clamorosamente. Ribellarsi sarebbe stato solo un modo dignitoso di anticipare l’eliminazione promessa. A causa dell’eccessiva disperazione, la spinta a resistere si tramutò, per i sopravvissuti, nel tentativo di testimoniare.
Un giorno di agosto del 1944 i membri del Sonderkommando sentirono l’imperiosa necessità di scattare delle fotografie capaci di testimoniare l’orrore a cui stavano assistendo. La semplice emissione di un’immagine divenne, per questi prigionieri, uno degli ultimi gesti di umanità e un modo per cercare di rendere immaginabile l’inferno che stavano vivendo. Le due foto sono conservate al Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau. Non sappiamo il nome dell’autore e, oggi, le troviamo esposte sotto il titolo generico di “Cremazione di corpi gasati in fosse di incinerazione all’aria aperta”. Vi scorgiamo il lavoro dei componenti del Sonderkommando che consisteva nel dare fuoco alle fosse in cui erano ammucchiati i corpi. Per scattare le foto ci fu bisogno, probabilmente, di un dispositivo di vigilanza collettiva e il fotografo improvvisato, per ovvi motivi, non si preoccupò di prendere le giuste distanze, scattandole alla meno peggio, forse senza guardare, forse correndo in preda alla paura. Sappiamo dalle testimonianze che l’operazione non durò che pochi minuti e il pezzo di pellicola, estratto dalla macchina, fu portato via da Auschwitz in un tubetto di dentifricio da Helena Danton. Perverrà poi alla resistenza polacca di Cracovia, nel settembre del 1944, accompagnato da una nota: “Urgente. Inviate più lontano possibile.”
Cosa voleva dire questo messaggio di disperazione? Si può ipotizzare che, al di là della resistenza polacca, perfettamente al corrente del genocidio, si intendesse inviare queste immagini a chi ancora non credeva possibile un simile orrore. Ancora oggi, non appena si cita la Shoah, si parla di “inimmaginabile”. Le fotografie scattate dai membri del Sonderkommando confutano quest’inimmaginabile e lo interrogano, ci interrogano. Sono momenti di verità e rappresentano qualcosa di inestimabile. Non è più possibile parlare di Auschwitz in termini di “indicibile” perché vocaboli come questo appaiono soltanto pigri. Il genocidio degli ebrei è stato pensato e progettato e, dunque, è qualcosa di pensabile e di dicibile.
Dobbiamo provare a immaginare l’inferno di Auschwitz del 1944: smettiamola di parlare di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare un orrore del genere è un compito che non possiamo assumerci: dobbiamo provarci! Si tratta di un debito da saldare nei confronti delle parole e delle immagini che i deportati hanno strappato all’esperienza terribile che stavano vivendo. Le nostre difficoltà di immaginazione non sono nulla a confronto di quelle che i membri del Sonderkommando hanno dovuto superare per consegnarci questi “brandelli di reale” di cui noi, oggi, siamo depositari e il cui peso ci affligge. Si tratta di immagini “malgrado tutto”, come le ha definite George Didi-Huberman. Malgrado i rischi corsi, malgrado l’inferno di Auschwitz. E noi abbiamo il compito di guardarle, di contemplarle, di non sfuggire a esse e, soprattutto, abbiamo il compito di farci i conti.