Appena qualche settimana fa, in seguito alla prima condanna per tortura per un agente del carcere di Ferrara, parlavamo non solo di quanto fosse stata necessaria la previsione di questa fattispecie di reato nel 2017, ma soprattutto di quanto fosse stato – e tuttora sia – difficile fare luce su ciò che avviene negli istituti penitenziari. Pochi giorni or sono, abbiamo avuto la conferma di quanto affermato: dieci agenti in servizio presso il carcere di San Gimignano sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate ai danni di un detenuto tunisino che nell’ottobre 2018 era stato vittima di un brutale pestaggio durante un trasferimento di cella. La vicenda giudiziaria riguarda anche un medico dell’istituto, condannato per rifiuto d’atti d’ufficio, per non aver visitato e refertato il detenuto, nonché altri cinque agenti, rinviati a giudizio ordinario nei prossimi mesi in un procedimento in cui si è costituita parte civile pure l’Associazione Antigone.
Anche in quell’occasione, il detenuto non si era sentito nelle condizioni di denunciare: il fatto di essere straniero lo aveva posto probabilmente in una situazione di marginalità ancora maggiore di quella ordinaria, costringendolo a vivere in una condizione di trauma e terrore per mesi, rifiutandosi addirittura di vedere un medico. È stato solo grazie all’attenzione di un’educatrice e al coraggio di altri detenuti che le atrocità subite sono emerse ed è stato possibile allertare il magistrato di sorveglianza e poi le autorità competenti per le indagini. Ma cosa accade quando questo coraggio manca? Quando prevale la paura di ritorsioni o si hanno di fronte altri complici di un sistema penitenziario repressivo e disumano?
I particolari che stanno venendo fuori riguardo ai fatti di San Gimignano sono ogni giorno che passa più raccapriccianti: gli agenti erano quindici, ognuno con i guanti, semplicemente per trasferire da una cella a un’altra un detenuto del tutto inconsapevole di ciò che stava per accadergli. Stentiamo a capire il motivo di un simile gesto. Di cosa si tratta? Frustrazione, divertimento, cattiveria?
Ho parlato con coloro che sono stati crocifissi come torturatori, mentre sono onesti lavoratori, che fanno uno dei lavori più difficili del mondo. Ci sono aggressori senza aggrediti, torturatori senza torturati e denunciati senza denuncianti. Gli uomini e le donne in divisa non meritano di essere trattati come delinquenti: queste le parole che furono pronunciate al momento dell’apertura del procedimento dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che si recò immediatamente a San Gimignano a mostrare la propria solidarietà agli agenti indagati, certo della loro innocenza e chiedendo che il video che li incriminava fosse mostrato pubblicamente, in modo che tutto il popolo italiano potesse farsi un’idea.
Ma la giustizia non è fatta di idee e non si fa né sulle forche nelle piazze né tantomeno dietro a uno schermo, bensì nelle aule dei tribunali e attraverso persone che sono adibite e competenti per una tale funzione. Intanto, il video è stato mostrato: tutti abbiamo potuto vederlo, osservarne la brutalità, la noncuranza degli aggressori, le grida di dolore, il corpo esanime sul pavimento e le voci degli altri reclusi provenienti dalle celle lungo il corridoio, cui viene intimato di stare zitti. Abbiamo visto, ci siamo fatti un’idea e dovremmo vergognarcene.
Se è vero che la presunzione di innocenza vale per chiunque fino a prova contraria, non bisogna neppure essere certi che un uomo, solo perché in divisa, non possa aver sbagliato. Durante l’espiazione della pena, i detenuti sono posti sotto la custodia dello Stato che ha un obbligo positivo di tutela nei loro confronti e di rispetto dei loro diritti fondamentali. Chi indossa una divisa rappresenta lo Stato nell’esercizio delle sue funzioni e non può in alcun modo sottoporre a trattamenti inumani le persone recluse, qualsiasi siano i motivi.
Tra le guardie e i ladri sceglierò sempre le guardie, aggiunse allora Salvini: l’idea per la quale ci siano buoni e cattivi e ai secondi sia sempre possibile attribuire tutte le colpe è una costruzione irrealistica che non trova nessun riscontro nei fatti. Chi ha commesso un reato non ha, soltanto per questo, meno credibilità di un uomo incensurato né meno diritto a vedere tutelata la propria persona. Compito di uno Stato di diritto – quale si propugna l’Italia – non è coccolare e accudire i buoni cittadini, mentre reprime quelli che appartengono alle categorie più marginali della società, che abbiano sbagliato o che non si mostrino figli accondiscendenti e sottomessi. È suo preciso compito schierarsi sempre dalla parte degli oppressi e mai da quella degli oppressori, chiunque essi siano.
Ci sono delle responsabilità istituzionali precise dietro i fatti di San Gimignano e tutte le atrocità commesse in carcere in questi anni: uno Stato che non si ferma a riflettere su un sistema che produce tali brutalità è esso stesso carnefice e il moltiplicarsi di fatti analoghi, nonché le ben due condanne per torture in poche settimane, ci dimostrano che non possiamo nasconderci più dietro singoli cui addossare tutta la responsabilità. Un sistema malsano va rivisto completamente, ne vanno scardinate le basi e le colonne portanti. Solo allora potremo dire di essere uno Stato di diritto che reinserisce in società chi ha commesso un reato e lo fa in maniera umana e dignitosa. Fino ad allora, ci resteranno la vergogna e una lunga strada da percorrere.