La pandemia imperversa in tutto il Paese ma, negli ultimi giorni, c’è un luogo in cui essa sta mostrando tutta la propria ferocia. Stiamo parlando del carcere, la cui situazione in fatto di contagi e misure preventive desta molta preoccupazione: il peggiore degli incubi, che avevamo già avuto modo di prospettare con la prima ondata, si è realizzato.
Il sovraffollamento, la promiscuità degli spazi, la carenza di condizioni igienico-sanitarie idonee nella maggior parte degli istituti di pena, sono fattori che rendono l’istituzione carceraria una bomba a orologeria vicina all’esplosione. Tra le situazioni maggiormente preoccupanti c’è quella della regione Campania, dove il primato di contagi è detenuto dalla casa circondariale di Poggioreale, uno degli istituti più sovraffollati d’Italia. Abbiamo così deciso di intervistare il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello, che ci ha offerto il suo punto di vista su quanto sta accadendo e le possibili soluzioni per arginare la diffusione del virus.
Qual è l’attuale situazione delle carceri campane in fatto di contagi e pandemia?
«In questo momento in Campania ci sono 212 contagiati tra i detenuti, di cui tre sono ricoverati tra il Cardarelli e il Cotugno, e 121 positivi tra il personale di polizia penitenziaria, amministrativo e in generale coloro che lavorano nei penitenziari. È di ieri la notizia del primo detenuto morto per COVID nel carcere di Poggioreale: si tratta di Giuseppe, che aveva 68 anni e che io ben conoscevo. La sua morte e gli stessi medici che sono stati contagiati, i direttori sanitari di Poggioreale, Santa Maria Capua Vetere e Secondigliano – quest’ultimo in gravi condizioni – ci dimostrano che è necessaria maggiore prevenzione. Questi numeri denunciano una situazione grave e preoccupante. Solo in alcuni istituti penitenziari non ci sono contagiati né tra i reclusi né tra il personale. Ciò che balza agli occhi è che, laddove sono presenti più detenuti e più agenti, è arrivato prepotentemente il contagio».
Nelle ultime ore i cappellani delle carceri campane hanno lanciato un appello per richiedere un indulto, a cui Lei ha aderito. Cosa pensa la Rete dei Garanti che opera sul territorio al riguardo?
«Abbiamo bisogno di considerare dei provvedimenti di indulto, di far uscire dal carcere in particolare le persone ammalate. Bisogna ampliare i limiti di pena residua, anche per i condannati per reati ostativi. Continuamente si precisa che i benefici non devono essere concessi a chi è condannato per reati ostativi o altri reati gravi come rapina o spaccio di droga, ma in realtà si tratta di una clausola discriminatoria, ipocrita e incostituzionale. Siamo tutti uguali di fronte alla legge e il diritto alla salute va garantito nei luoghi della reclusione, senza dimenticare che vi si trovano persone. Diversamente, ci troviamo in uno Stato vendicativo. Inoltre, si torna a casa in detenzione domiciliare, quindi a scontare la propria condanna, non si tratta di liberazione. Io sono per la certezza della pena che, però, deve essere accompagnata dalla qualità della pena. Come Garante regionale, insieme al Garante napoletano Pietro Ioia, a quello di Caserta, Emanuela Belcuore, e a quello di Avellino, Carlo Mele, abbiamo fatto un appello alle procure per verificare che solo in casi più gravi si entri in carcere in custodia cautelare, mentre negli altri casi si decida per la detenzione domiciliare, ricorrendo alla magistratura di sorveglianza per velocizzare – nonostante la carenza di personale e cancellieri – l’accesso alle misure alternative».
Sicuramente è necessaria una volontà politica in tal senso. Perché pensa che non si sia fatto ancora nulla di concreto?
«In queste ore, il Partito Democratico e Italia Viva hanno presentato degli emendamenti al Decreto Ristori e delle misure urgenti in tema carcere, ma non bastano perché occorre aumentare il numero di coloro che possono usufruire di misure alternative al carcere, occorre trovare spazi fuori dai penitenziari se i detenuti contagiati hanno bisogno di ricoveri, dato che i posti letto attualmente sono tutti occupati. Abbiamo bisogno di misure urgenti, di uno sforzo in più, non solo della magistratura, ma soprattutto della politica. Anche coloro che si professano di sinistra sono vittime di un populismo penale e politico. Io dico che la sinistra dovrebbe prendersi sulle spalle i problemi degli ultimi, di questa marginalità sociale. In carcere ci sono 10mila condannati per associazione a delinquere, ma la maggior parte degli altri 44mila vi si trova a causa di leggi che hanno raddoppiato gli anni di reclusione per la droga o, per gli immigrati, la possibilità di entrarvi. Bisogna aprire una discussione su questo. Qual è il confine tra popolarismo e populismo, tra massa e plebe? Dove sta la sinistra e chi si può dire di sinistra? L’argomento può essere affrontato anche da cattolico. Il Vangelo ci ricorda che 2000 anni fa Gesù invitava a visitare i carcerati, a dare da mangiare agli ammalati. Altro che filo spinato e chiusura dei porti. Se un uomo vuole applicare la Costituzione, se un uomo dice di essere di sinistra, deve stare dalla parte più debole e vessata dalla società.
La politica è pavida e cinica già da anni sul tema. Basti pensare al caso di Poggioreale: tre anni fa 12 milioni di euro furono attribuiti dal Ministro delle infrastrutture al Provveditorato campano delle opere pubbliche per rimodernare sei padiglioni disumani dal punto di vista igienico-sanitario, in celle da dieci detenuti senza docce. Solo quest’anno, dopo le mie denunce, con una marginalità di comunicazione, sono iniziati timidamente i carotaggi, ossia le prove sismiche a Poggioreale. Ma è necessario iniziare i lavori in maniera urgente, per rendere più dignitosa la carcerazione».
Cosa, secondo Lei, avremmo dovuto imparare dopo la prima ondata di marzo per affrontare il contagio nelle carceri? Cosa si è sbagliato, in particolare in tema di comunicazione?
«Al 7 luglio i casi di detenuti positivi erano 287. Già questi dati bastavano per preparare qualcosa in più. Al 28 ottobre erano 150, ora siamo arrivati a un migliaio. Ci sono state ventisette rivolte negli istituti penitenziari a marzo, perché all’improvviso senza alcuna comunicazione sono stati sospesi colloqui, cancellata la possibilità di ricevere i pacchi, senza la predisposizione di nessuna misura alternativa sostitutiva. Rivolte in cui hanno perso la vita quattordici persone detenute, la cui morte è stata liquidata con l’identico referto del dap di overdose da metadone, rispetto a cui è sicuramente legittimo avanzare un ragionevole dubbio.
A questo punto, saranno necessari da parte del Ministero più cellulari per le chiamate, un’implementazione dei modi di comunicare all’esterno perché non siano le famiglie a pagare le conseguenze della pandemia. Fuori si parla di distanziamento sociale: questo neologismo coniato per l’emergenza mi spaventa. Fuori bisogna stare a un metro di distanza, mentre in carcere imperversa il sovraffollamento. A uccidere è più l’indifferenza che la pandemia».