L’istituto penitenziario di Poggioreale sta affrontando, in questi giorni, una drammatica situazione di tensione che ha richiamato le attenzioni della stampa nazionale e locale. I detenuti di alcuni padiglioni del carcere, infatti, lamentano condizioni di disagio causate dal sovraffollamento, inoltre, puntano il dito contro il mancato rispetto dei propri diritti fondamentali, come quello alla salute. Alcuni di essi esercitano lo sciopero della fame, rinunciano a ritirare i medicinali necessari alle cure. Nelle scorse settimane, si sono registrati, addirittura, dei drammatici casi di suicidio.
A prendersi cura delle loro istanze, a farsi portavoce delle loro necessità, è il Garante delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, professore universitario e giornalista, da sempre impegnato nelle battaglie legate al rispetto della dignità umana nelle galere. Abbiamo contattato Ciambriello per capirne di più sulle reali condizioni delle carceri campane, e provare, grazie alla sua trentennale esperienza, a tracciare una strada percorribile affinché si possa, in un prossimo futuro, affrontare questa crisi e offrire delle risposte concrete.
Ciambriello, qual è la condizione generale delle carceri della Campania?
«I dati più eclatanti a proposito sono nient’altro che i numeri. Il sovraffollamento dimostra che esistono leggi, nel nostro Paese, che conducono le persone in carcere. Penso a quelle sull’immigrazione, sulle tossicodipendenze, ma anche a quelle norme che portano a condanne di un unico anno di detenzione. Non è possibile trovare un’alternativa a un anno di galera? Un lavoro socialmente utile, una pena amministrativa adeguata. Secondo la Costituzione, qualsiasi individuo varchi la soglia di un istituto penitenziario dovrà essere rieducato. Ciò che accade in Campania, invece, è che si entri avendo commesso un reato e si esca avendolo, a propria volta, subito a opera dello Stato a causa del sovraffollamento degli spazi, della mancanza dei diritti fondamentali, dalla dignità alla salute. Gli si aliena la mente, gli si strappa gli affetti familiari, non gli si concede di vivere alcuna emozione. Faccio una battuta: una volta, dieci anni fa, il Ministero si intitolava di Grazia e Giustizia, poi è stata cancellata la Grazia. È una perfetta fotografia della situazione attuale.»
Come si può affrontare e, quindi, superare il problema del sovraffollamento?
«La risposta più banale, e inutile, che sento dalle persone è costruiamo nuove carceri. Invece, la soluzione è ben più impegnativa: c’è bisogno di un decreto, una legge, una seria riforma dell’ordinamento penitenziario. Purtroppo, oggigiorno, ci sono spinte populiste e demagogiche che invocano tutto nel nome della sicurezza dei cittadini, scordando però di coniugarla con la dignità delle persone. Altro che più carceri, c’è necessità di fare un ragionamento sulla decarcerizzazione, sui luoghi alternativi alle prigioni, sulle pene sostitutive alla detenzione. La nostra Costituzione parla al plurale, le pene, ma in Italia l’unica condanna è il carcere. In tutta Europa si usa la stessa espressione, però, gli altri Paesi creano luoghi alternativi, fanno svolgere ai detenuti lavori di pubblica utilità, li affidano a delle associazioni per un sano e progressivo reinserimento. C’è un malinteso tra la certezza della pena e la certezza della galera.»
È vero che il carcere, così com’è, non riesce nel compito di rieducare? Anzi, spesso Lei ha dichiarato che un detenuto ne esce incattivito.
«La domanda da porsi è “Cosa manca nelle carceri?”. La risposta può sembrare superficiale: manca l’amore. Manca nella società, nella famiglia, nei luoghi di vita, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole. Il carcere è lo specchio della società. La mia trentennale esperienza tra gli istituti penitenziari, anzi, mi ha spesso mostrato quanto questi siano meno incattivi e cattivi delle comunità cosiddette civili. Se le già drammatiche statistiche relative ai suicidi non risultano ancor più pesanti, è grazie alla solidarietà che si sviluppa tra i detenuti, oppure con gli agenti di polizia penitenziaria, anch’essi in numero inferiore rispetto al necessario. Ogni suicidio in carcere è una sconfitta. Occorre fare prevenzione, formare psicologi, sociologi, ti pare che una decina di assistenti sociali possano far fronte a un’emergenza che coinvolge migliaia di individui per ogni singolo istituto? Dal 2003, le Regioni hanno avviato questa sperimentazione sulla figura del Garante delle persone private della libertà personale (detenuti, TSO, malati psichici, persone in camere di sicurezza – ndr). Adesso, però, bisogna mettere in campo una rete con la consapevolezza che ognuno ha una responsabilità istituzionale, per esempio, in materia di assistenza sanitaria, di prevenzione dei trattamenti inumani o degradanti, in materia di reinserimento sociale delle persone. Il carcere è fallito. Se l’80% dei detenuti torna dietro le sbarre, è fallito nel suo intento. Io intendo sostenere, con l’appoggio della politica, quegli spazi delicati, tra il dentro e il fuori, quella che è una fase molto difficile. Va chiesto alle persone rimesse in libertà “Che competenze hai? Sviluppiamole e ti rimettiamo in gioco”. Solo così si scongiura la recidiva. Chi, infatti, evita di percorrere nuovamente i corridoi di una galera ha incontrato, durante la propria detenzione, un volontario, una cooperativa, un prete, un aiuto a vivere il passaggio tra dentro e fuori attraverso un corso di formazione professionale.»
L’Area Metropolitana di Napoli, però, è sprovvista di questa fondamentale figura. Come mai?
«Stiamo sollecitando il Comune di Napoli da anni, anche la nuova amministrazione. In Italia sono cinquanta i Comuni che hanno il proprio Garante dei Detenuti, oltre a diciassette Regioni. C’è una delibera di Giunta volta alla nomina di un Garante comunale e dell’Area Metropolitana. Ogni tanto, però, si tenta di far passare il messaggio che siano in atto grandi rivoluzioni mosse da grandi rivoluzionari, ma le Province del Nord ne sono tutte già dotate. Quando toccherà, finalmente, a Napoli non ci sarà nulla da festeggiare, siamo già in ritardo. Più saremo a mettere in campo iniziative di alternativa alla detenzione, più forte risulterà la nostra azione.»
Quali differenze riscontra tra gli istituti penitenziari maschili e femminili in termini di diritti?
«In Campania abbiamo un’esperienza di carcere al femminile a Pozzuoli, con tutti i suoi limiti. Pozzuoli è super affollato, 175 detenuti su una capienza di 109 posti, ci sono celle con 10, addirittura 12 letti. A Benevento, come a Santa Maria, ad Avellino, a Salerno, dove sono previste sia sezioni maschili che femminili, le aree a disposizione delle ragazze sono maggiori, hanno più possibilità. A Santa Maria, all’Alta Sicurezza, vengono allestiti spazi più dignitosi a disposizione di queste donne, penso alla sartoria. Sulla differenza maschile-femminile mi preme sottolineare un dato. Le donne vivono la disumanità del carcere, la distanza dagli affetti, in maniera diversa dagli uomini: mentre l’80% di questi torna in carcere, la recidiva femminile è tra il 15 e il 20%. Una donna che sbaglia una volta, che si è lasciata sfruttare, che ha subito la lacerazione affettiva, genitoriale, non commette due volte lo stesso errore. E questo è positivo. Ma non è merito del carcere, sono un’azione e una reazione riconducibili esclusivamente alla propria indole. La tua è una bella domanda. Non sento mai parlare di questa cosa.»
Per ciò che riguarda, invece, gli istituti minorili di Nisida e Airola, come stanno i ragazzi?
«Situazione altrettanto complicata. Sulle targhe di questi due istituti c’è scritto Carcere per minorenni, invece, su 110 detenuti, la stragrande maggioranza è composta da giovani adulti, ossia ragazzi tra i 18 e i 25 anni, siccome è possibile restare in un carcere minorile fino al venticinquesimo anno d’età per un reato compiuto quando ancora si era minorenni. A questo punto, sorgono altre problematiche. Ci sono 9 donne nel carcere di Nisida, tra i maschietti, non ne parla nessuno. Sempre più entrano ragazzi che scontano pene per reati gravissimi, efferati. Inoltre, 230 minori sono affidati alle tante comunità residenziali ed è con queste che dovremmo lavorare di più, perché è proprio lì che vengono messi alla prova, vivono in maniera alternativa la pena. Sono 4000 e più i giovani che ogni anno in Campania ricevono una denuncia, un fermo, un accompagnamento, molti di questi hanno meno di 14 anni. Cosa si fa per alleviare questa situazione di disagio, per svilire la mentalità che tutto è lecito? È imbarazzante constatare che, per anni, nessun governo ha pensato di investire su politiche sociali, osservare che non si effettuano interventi in questo senso. La Regione Campania, controcorrente, ha lavorato abbastanza bene, investendo 30 milioni in corsi di formazione per adulti, per gli ex detenuti, per aggredire un po’ la povertà. Chiudo con un dato allarmante: 7100 detenuti in Campania, di cui 5000 solo a Napoli e provincia, sono fuori le carceri, ma dipendono ancora dall’ufficio esecuzione penale esterna. Sono soltanto 25 gli assistenti sociali che si occupano di queste persone che sono in fermo, in libertà vigilata, agli arresti domiciliari. Chi le aiuta a riappropriarsi di spazi, di luoghi, di riflessioni? Esiste, in Italia, un’istituzione che è il Tribunale di Sorveglianza che assieme ad associazioni e cooperative, che investono su un detenuto con buona condotta, lavora per offrire un percorso alternativo al carcere. Questo, però, certifica una cosa, ossia che un periodo di detenzione appare inevitabile, poi, se il detenuto è disposto a lasciarsi cucinare come vogliono loro, allora, ha la possibilità di un’alternativa. Ma non tutti hanno la lucidità per capirlo e approfittare di quelle poche occasioni concesse loro.»
A Poggioreale, in questi giorni, sta montando una forte protesta. Di cosa si tratta?
«Si tratta di una situazione ancora più traumatica. A un uomo va tolto il diritto alla libertà, non alla dignità. Questi si trova, quindi, a dover protestare per ottenere assistenza sanitaria, ricoveri, operazioni. Per i carcerati di Poggioreale e Secondigliano sono previsti solo 10 posti all’ospedale Cardarelli, 3 al San Paolo e 3 al Cotugno, per un totale di 16 letti per una popolazione di 4000 persone. Ogni anno, in migliaia devono uscire per svolgere delle visite che se operate in sede, con apparecchi appositi e personale qualificato, porterebbero a un considerevole risparmio in termini economici. Chiedono controlli specialistici, una TAC, la telemedicina, la cartella clinica telematica. A volte partono, vengono trasferiti e le loro cartelle vanno perdute, costringendoli a ricominciare i controlli da zero. Stanno facendo lo sciopero della fame, stanno rifiutando i medicinali per attirare i riflettori, la televisione. Che Paese civile è questo?»
Altro problema, pare di capire, è quello delle lentezze burocratiche.
«Lentezza istituzionale per aggiustare un bagno, per ritinteggiare un corridoio, per disinfettare, perché ci sono i topi, perché ad Ariano Irpino è stato progettato uno spazio per un campo sportivo senza che questo fosse, però, mai realizzato. A cosa deve dedicarsi un detenuto dalla mattina alla sera? Ci sono lentezze, condizioni di costante emergenza. Ne cito una per tutte, il caso di Santa Maria di Capua Vetere, dove ancora non siamo riusciti a far arrivare l’acqua potabile. Come è stato possibile anche solo inaugurarlo un istituto penitenziario senza acqua potabile? Nel 2015 la Regione Campania, finalmente, ha stanziato più di 2 milioni di euro per la costruzione della condotta. Sono trascorsi oltre due anni, le risorse sono state assegnate e il Comune non è stato ancora in grado di realizzare l’opera, di portare un tubo dell’acqua. Uno scandalo.»
Ci lascia con una considerazione personale che ha sviluppato nel corso di questi primi mesi come Garante dei Detenuti della Regione Campania?
«La gente pensa che tutti quelli che vanno in carcere siano criminali. Non considera, però, che solo il 6% dei detenuti è legato a fatti di criminalità organizzata, camorra, ‘ndrangheta, mafia, ecc. Dal 1990 a oggi, 16.000 italiani hanno ricevuto più di 800 milioni di euro per aver subito ingiusta detenzione. In un’Italia giacobina e forcaiola nessuno si pone questa domanda: chi ha pagato? Io mi concentro sul fatto che c’è un colpevole fuori, non decine di innocenti dentro. Ricordiamoci che il nostro Paese, con un referendum passato con l’80% dei voti favorevoli, ha chiesto la responsabilità penale e civile per i giudici. Non mi risulta, però, che un solo magistrato, per una sentenza sbagliata, per una carcerazione ingiusta, con tanto di risarcimento alla vittima, abbia pagato in termini monetari, di carriera, anzi, molti hanno fatto anche brillanti percorsi. Sono cose di cui nessuno parla, che nessuno pubblica sui giornali.»