Negli ultimi giorni si è riacceso – come avviene ciclicamente – il dibattito sul salario minimo, in particolare perché le forze politiche dell’opposizione, esclusa Italia Viva, hanno presentato una proposta di legge congiunta che prevede l’introduzione della tutela. Proposta per la cui discussione, però, la maggioranza ha richiesto la sospensiva fino al 29 settembre.
Tradizionalmente, il centrodestra è sempre stato contrario alla sua previsione, nascondendosi dietro l’utilizzo di altri strumenti per raggiungere lo stesso fine, in particolare la contrattazione collettiva. Una situazione simile si è verificata anche a novembre scorso, quando è stata emanata la direttiva europea 2022/2041 che, pur non introducendo alcuna misura vincolante per gli Stati membri, invitava coloro che non ne fossero ancora provvisti – l’Italia e pochissimi altri – a dotarsi di uno strumento che potesse far convergere verso l’alto le retribuzioni minime.
Anche in quell’occasione il governo si disse pronto a raggiungere suddetto fine incentivando la contrattazione collettiva in tal senso. Tuttavia, i limiti sono molteplici: se è vero che l’80% circa dei contratti di lavoro ricade nell’applicazione di un contratto collettivo – restano esclusi alcuni settori come quello dell’agricoltura e del lavoro domestico – è molto diffuso il fenomeno della contrattazione pirata, di cui si parla per riferirsi a quei contratti collettivi conclusi con delle sigle sindacali non realmente rappresentative. Attraverso questi ultimi, i datori di lavoro riuscirebbero ad applicare ai dipendenti condizioni meno favorevoli e oltretutto una grande quantità di contratti crea confusione nel lavoratore rispetto al salario di cui ha diritto.
Basti pensare che nel 2022, su 894 contratti del settore privato depositati, solo 207 sono stati firmati da CIGL, CISL e UIL, che sono i sindacati più rappresentativi. A ciò si aggiungano tutte quelle situazioni in cui i lavoratori continuano a non essere configurati come subordinati e vedono negarsi qualsiasi tutela, come è nel caso dei rider.
Chiaramente parlare in modo generico di salario minimo non è di per sé risolutivo poiché se è vero che esso si configura come una soglia minima, mensile o oraria, che deve essere necessariamente garantita ai lavoratori e che non può essere derogata attraverso nessuno strumento negoziale – a meno che quest’ultimo non stabilisca condizioni migliorative –, la sua validità dipende dalla sua concreta costruzione. Nell’indicazione di una cifra, infatti, possono essere comprese o meno talune quote, come il TFR e la tredicesima, ma è anche rilevante a chi vada applicata la tariffa e come questa si aggiorni periodicamente.
A tal proposito, la proposta presentata dall’opposizione fissa il salario minimo a 9 euro l’ora, applicandolo non solo ai lavoratori dipendenti ma anche a quelli autonomi e/o con contratti meno stabili, istituendo poi una commissione per la rivalutazione periodica della soglia fissata.
Intanto la necessità di dotarsi di una simile misura sta diventando sempre più impellente: tra le tante motivazioni, basti pensare all’inflazione degli ultimi mesi e alla drastica riduzione di potere d’acquisto per chi ha un reddito fisso. I dati diffusi da INPS ci mostrano una realtà su cui l’introduzione di una soglia minima e non derogabile per la retribuzione inciderebbe non poco: in Italia sarebbero 4,5 milioni i lavoratori che percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora, in particolare in settori come la logistica, la ristorazione, il turismo e i servizi di assistenza e cura, senza considerare inoltre tutti quei casi di impiego sommerso in cui le condizioni retributive e di lavoro risultano di gran lunga peggiori. Tra questi, quasi il 40% di giovani, under 35, a cui i rappresentanti politici hanno anche l’ardire di dare insegnamenti su come vivere, lavorare, comportarsi, meravigliandosi se questi decidono di andare altrove o addirittura di non fare figli.
Inutile dire che le imprese e Confindustria sono contrarie all’introduzione della misura perché la ritengono una limitazione della libertà imprenditoriale e della possibilità di fare profitti, tanto che nella proposta di legge dell’opposizione è stata inserita una previsione in base alla quale per il primo periodo saranno erogate delle somme a compensazione per quelle aziende che si faranno carico di costi aggiuntivi per adeguare gli stipendi. Pur trattandosi di uno strumento efficace per rendere da subito operativa la misura, ci dà l’idea di quanto i rappresentanti politici non smettano di strizzare l’occhio alle imprese, avendole come loro principale interlocutore.
Che i diritti dei lavoratori e di coloro che vivono una condizione di disagio non siano tra gli interessi del governo è stato chiaro fin da subito, fin dalle sue prime azioni, tra cui l’introduzione di un Assegno di inclusione che non ha nessun contatto con la realtà, quella vera di persone che faticano ad arrivare a fine mese e per cui non conta altro che preservare la propria dignità.
Secondo i dati a cui hanno fatto riferimento varie fonti, tra cui il Presidente dell’INPS Tridico, si tratterebbe di aumento del 20% del costo del lavoro, aumento mal sopportato da chi vorrebbe tenersi per sé quei profitti, lucrando sulla pelle dei lavoratori. Non aiuta l’intervento poco incisivo dei sindacati sul tema, che da un lato dimostrano di non riuscire a esporsi troppo, dall’altro finiscono vittime di contrasti tra loro.
Non intendiamo certo dire che l’introduzione del salario minimo rappresenti la panacea di tutti i mali, tuttavia sarebbe uno slancio di civiltà per dare una reale applicazione all’articolo 36 della Costituzione e al suo riferimento a una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa, e un buon punto di partenza non solo per coloro la cui area produttiva di riferimento non prevede l’applicazione di un contratto collettivo di settore, ma anche che subiscano gli effetti di un contratto pirata. La domanda rimane: cosa ne sarà stavolta del salario minimo?