Avanza in equilibrio, su una linea sottile tra privilegio e condanna, uno dei romanzi più chiacchierati e interessanti di questo 2018 letterario, Le assaggiatrici di Rosella Postorino (Feltrinelli Editore). Nominata tra le cinque opere finaliste al prestigioso Premio Campiello, la storia si ispira alla vita di Margot Wölk, scelta da Hitler durante gli anni del secondo conflitto mondiale per assaggiare i pasti a lui destinati, accertandosi, così, di non correre il rischio di essere avvelenato.
È una vita, quella di Rosa Sauer, – l’alter ego narrativo di Margot Wölk, la protagonista del libro di Postorino – che rimbalza drammaticamente tra la fortunata possibilità di pranzare tre volte al giorno, al contrario di chiunque altro in Germania e nel mondo, e il rischio che quel pasto possa rivelarsi a lei fatale. Un racconto, scritto dall’autrice originaria della Calabria, che interroga le stanze più intime dell’animo umano, in bilico tra colpa ed eroismo, sullo sfondo dell’ambiguità del desiderio.
L’abbiamo raggiunta, Rosella Postorino, al termine del tour che vede protagonisti i cinque concorrenti alla competizione letteraria costituita nel 1985 dagli industriali veneti in diverse città d’Italia, presentando i libri in competizione.
Rosella, apriamo questa intervista con la nomina del Suo ultimo libro, Le assaggiatrici, tra le opere finaliste al Premio Campiello. Come ha vissuto il momento in cui Le è stata comunicata la notizia e come sta vivendo questi mesi che precedono la serata finale?
«Per caso, andando su Twitter dal mio cellulare, mentre camminavo per strada in pausa pranzo, ho trovato dei tweet sul Campiello, dunque un istante prima che mi fosse annunciato l’ho scoperto da me. Di certo è stato emozionante. Subito dopo sono arrivate decine di messaggi di congratulazioni, attraverso ogni canale possibile. Il tour è stato una bella esperienza, meno faticosa di quanto prevedessi, o comunque la grande fatica, nel mio caso, di conciliare il percorso del mio libro con il lavoro quotidiano in ufficio è stata superata dalla bellezza.»
In lizza c’è anche Helena Janeczek, neo-vincitrice del Premio Strega, lo scorso anno, invece, al Campiello s’impose Donatella Di Pietrantonio. È un momento, finalmente, fortunato per le scrittrici. Crede che la letteratura stia cambiando la propria voce?
«Ci sono sempre state ottime scrittrici in Italia, semplicemente in questo periodo se ne parla di più perché anche le battaglie sociali come il #metoo hanno immancabilmente i loro risvolti commerciali. Credo che il maggior interesse verso la narrativa scritta da donne sia legato più al mercato che a un cambiamento culturale, e lo dico con rammarico. I lettori sono in prevalenza lettrici, e leggono di tutto, dunque – a differenza di quei pochi maschi italiani che leggono anche romanzi e non solo saggi – pure le donne. Credo però che a lungo andare questa tendenza possa favorire un cambiamento culturale. Mai come per questo mio ultimo libro mi hanno contattato degli uomini per raccontarmi quanto lo avessero amato. Più il pubblico di un libro scritto da una donna si allarga, più aumentano le possibilità che anche gli uomini ne facciano parte. Più le donne vengono pubblicate, vincono i premi, scrivono sui giornali, e di qualunque argomento (non solo di quelli stereotipicamente considerati “da donne” o “per donne”), più si può sperare che domande come questa smettano un giorno di avere senso.»
Passiamo a parlare de Le assaggiatrici, un romanzo ispirato alla storia di Margot Wölk, che tre volte al giorno assaggiava le pietanze destinate a Hitler. Come mai questa storia ha fatto breccia tra le Sue emozioni, e in che modo?
«Perché la storia di una giovane donna non nazista – così si definiva Margot Wölk – che per provare a sopravvivere rischia tre volte al giorno di morire, semplicemente mangiando, e affronta la possibilità quotidiana di essere avvelenata per salvaguardare la vita del Führer, uomo che non ha votato né ama, racconta una contraddizione per me interessantissima: la colpa in cui si cade proprio diventando vittime. E rappresenta la contraddizione in cui ciascun essere umano si trova: vivere è sempre scontrarsi con la morte.»
Ha cercato, prima di cominciare a scrivere, di mettersi in contatto proprio con la donna di cui racconta. Quando ha scoperto che era morta da poco, ha deciso, comunque, di recarsi in Polonia e in Germania, presso i luoghi della sua vita. Ci racconta di questa esperienza di viaggio?
«Margot Wölk ha lavorato come assaggiatrice di Hitler quando viveva a Gross-Partsch, il paesino di nascita del marito, in Prussia Orientale. Si era rifugiata lì, a casa dei suoceri, dopo che il suo appartamento di Berlino era stato bombardato; purtroppo questo villaggio rurale sorgeva a soli tre chilometri dalla Wolfsschanze, la Tana del Lupo, il quartier generale di Hitler, e quindi a una settimana dal suo arrivo Margot fu prelevata dalle SS per fare l’assaggiatrice. Sono stata a Gross-Partsch, che adesso si chiama Parcz, e ho visitato la Wolfsschanze, girando per le macerie dei bunker con una guida, carpendo aneddoti, fotografando meticolosamente, registrando sul mio cellulare i suoni (diurni e notturni) della foresta in cui la Tana del Lupo era nascosta. Sono andata anche nel quartiere di Margot a Berlino per conoscere i suoi luoghi (la scuola elementare, la piazza dove giocava da piccola, il palazzo in cui è stata stuprata dai soldati sovietici), e ho parlato di lei con la sua dirimpettaia. Tutto questo non mi è servito a saperne di più sulle assaggiatrici: né la guida né le biblioteche nei dintorni della Tana del Lupo mi hanno aiutata, e la vicina di Margot mi ha raccontato cose anche molto tenere su di lei, ma mi ha detto che dell’esperienza come assaggiatrice, e in generale della guerra, la Wölk non voleva mai parlare. Tutto ciò che riguarda la mensa forzata è dunque frutto di invenzione narrativa.»
Rosa Sauer è la protagonista de Le assaggiatrici, non a caso porta il Suo nome. Nonostante si ispiri, come detto, alla storia di una delle donne costrette a testare i pasti del Führer, quanto c’è di Lei nel personaggio?
«In ciascun personaggio c’è sempre qualcosa di me o di qualcuno che conosco, personalmente o attraverso la letteratura, il cinema, il teatro, addirittura la musica… Non credo però che nessuno scrittore possa – né debba – stabilire con precisione quanto, e dove, o perché. In ogni caso, Rosa ha una formazione cattolica, ma dubita di Dio e con Dio si indigna: credo sia l’aspetto del suo carattere che più mi somiglia. Dare alla protagonista del libro il mio nome – si trattava di un personaggio di invenzione, seppur ispirato alla vicenda di Margot Wölk, e quindi doveva avere un nome fittizio – è stato un modo per gettarmi a capofitto in un’impresa che mi spaventava molto, per la ricostruzione storica da un lato, ma soprattutto perché mi pareva difficile raccontare una donna così lontana da me: a differenza sua, io non ho mai vissuto una guerra, non sono cresciuta sotto una dittatura e soprattutto non sono tedesca. Narrare la storia attraverso la prima persona, in soggettiva, mi è sembrata una bella sfida e, affinché la sfida fosse totale, ho chiamato la protagonista come me sulla carta di identità, quasi per rendere più evidente la domanda: che cosa avrei fatto io al posto di Margot Wölk?»
Il tema centrale del romanzo è quello della sopravvivenza. In recenti interviste, però, Lei ha parlato anche di ambiguità delle pulsioni umane, di effetti delle organizzazioni totalitarie, di vita privata delle persone coinvolte. Come ha affrontato ognuno di questi argomenti e cosa Le hanno suggerito?
«Non so come mai si sia diffusa l’idea che un romanzo sia un prodotto deciso aprioristicamente, confezionato con un metodo tipo “scelgo un po’ di temi e poi trovo il modo di metterli in scena”. Non funziona così, almeno non per me. È a posteriori che io capisco quali siano i temi in gioco e perché sia stata attirata in modo prepotente da una storia, o perché racconti sempre storie con una certa fisionomia. Dunque, non ho affrontato nessun argomento né l’argomento mi ha suggerito nulla. Ho iniziato a scrivere perché non potevo farne a meno, senza sapere dove sarei arrivata né se mai avrei finito: come sempre. I temi della colpa, della vittimizzazione, della violenza, della sopraffazione di un essere umano sull’altro, della coercizione, della gabbia, dei rapporti uomo-donna, della famiglia, dell’emancipazione (colpevole) attraverso il desiderio, dell’ambiguità del desiderio ricorrono in tutti i miei romanzi, senza che io lo abbia deciso né che possa (o debba) saperne il perché.»
L’impossibilità di scelta, dunque, delinea il personaggio di Rosa. Ma, secondo Lei, ci sono davvero circostanze in cui una persona non ha via d’uscita?
«Rosa ha una via d’uscita rispetto alle bombe di Berlino o alla fame, ma quella scelta implica un costo immediato – il rischio di morte – e un altro che le peserà soprattutto in futuro, quando saprà senza più alibi che cos’era il Terzo Reich e non potrà dimenticare di aver contribuito a tenerlo in vita. Avrebbe avuto una via d’uscita rispetto al reclutamento da parte delle SS? Scappare, e magari essere presa, subendo le conseguenze della cattura. Uccidersi, al limite, anche: c’è sempre comunque questa via d’uscita. Insomma, io credo che esista sempre una via di fuga, ma che ognuna implichi costi e sofferenze. Non credo a quelli che dicono che si può sempre scegliere. La scelta di essere eroi (o martiri) è estrema quanto il suicidio: chiedere a chiunque di comportarsi da eroe è ingiusto. Credo dunque nel movimento, mai nell’immobilità, ma non è detto che il movimento porti alla salvezza.»
Lei è originaria della Calabria, ha vissuto a lungo in Liguria, e gran parte della Sua vita si svolge a Roma, dove lavora. In che modo le Sue radici del Sud e le successive migrazioni hanno influito nella stesura di questo libro e anche dei precedenti?
«Innanzitutto – e anche di questo mi rendo conto solo a posteriori – c’è un treno quasi in ogni mio romanzo. C’è qualcuno che parte e non si sa se tornerà (in genere è un uomo). C’è un viaggio che conduce a una vita nuova (non necessariamente migliore, ma che prometteva di esserlo), e il tentativo di inserirsi in una comunità già formata, sentendosi stranieri, o addirittura essendo trattati da diversi. Rosa è la “berlinese” e avrà difficoltà a farsi accettare dalle altre assaggiatrici, che invece vengono quasi tutte dallo stesso posto. Il suo sentimento di estraneità mi appartiene.»