È una notte di dicembre, a Roma. Le strade sono deserte, deserte le piazze, Spelacchio è la sola compagnia di quelli che di giorno nessuno vede. Sono i senzatetto, costretti a raccogliere le proprie cose prima che San Pietro si faccia palcoscenico della cristianità nel mondo. Sono gli uomini soli che nel buio cercano braccia accoglienti, le cosce esposte nella vetrina del sesso a pagamento. Sono le mani che impastano il sapore del cornetto al mattino. Il vizio che è dipendenza che scolora i pensieri. Sono le donne. Tante, sempre di più, quelle a cui Roma – e l’Italia tutta – sceglie spesso di voltare le spalle. È per loro, ma non solo, che il Luchasegnale si proietta sulle facciate della Capitale, per ricordare che le attività di contrasto alla violenza di genere proseguono anche durante questo complesso periodo di pandemia. E per ricordare, a chi finge di dimenticare, il pericolo che la Casa corre, nonostante i soliti proclami di salvezza.
Dal Campidoglio alla sede della Regione Lazio, dal Ministero della Salute al Ministero dell’Istruzione, ma anche l’ospedale Fatebenefratelli sull’isola Tiberina. Il logo di Lucha y Siesta illumina il buio di una città che non si cura di persone e luoghi che lottano ogni giorno per renderla migliore. Persone e luoghi che sostituiscono lo Stato ma allo Stato devono comunque rispondere. Come la Casa delle Donne, rifugio e centro antiviolenza del quartiere tuscolano da tempo impegnato in un braccio di ferro con la giustiziera amministrazione a 5 Stelle.
Lo stabile che ospita Lucha y Siesta è tra gli immobili di proprietà dell’ATAC finiti nel concordato preventivo tra la municipalizzata e la giunta Raggi e dal 2019 aspetta di essere acquistato, messo all’asta per sanare i debiti dell’azienda che dagli anni Venti non se ne prende cura. Per la legge, la palazzina è abusivamente occupata, ma di abusiva c’è soltanto l’ingerenza di una politica che non sa fare il proprio mestiere. Il valore economico dell’edificio si aggirerebbe intorno ai due milioni di euro. Il valore umano, invece, resta inestimabile.
Appena pochi giorni fa, la Regione Lazio ha ufficialmente avanzato la sua proposta di acquisto in attesa dell’asta prevista per il 1 marzo 2021, già rinviata a causa del congelamento da COVID-19. Le attiviste e gli attivisti di Lucha y Siesta, però, non possono ancora dirsi soddisfatti e sottolineano quanto la battaglia sia tutta da combattere: «Abbiamo imparato che, soprattutto nella città di Roma, ci sono insidie a ogni angolo e mentre la cittadinanza attiva, l’associazionismo di base, lə attivistə ogni giorno lavorano per costruire una comunità solidale, troppo spesso le lungaggini burocratiche, i pantani amministrativi, le non volontà di agire, impediscono che i processi di trasformazione dell’esistente arrivino a conclusione. La battaglia non è ancora vinta, e non lo sarà fin quando non verrà finalmente riconosciuta e stabilizzata questa esperienza irrinunciabile per tutta la città».
In questi anni, la Casa ha aiutato più di 1200 donne nel loro percorso di autodeterminazione. Più di un centinaio e 62 minori hanno persino soggiornato nella struttura, grazie a soluzioni di semiautonomia capaci di accoglierli e di garantire loro il necessario supporto, in una città che di supporto e accoglienza ne offre ben pochi. Basti pensare che, secondo la Convenzione di Istanbul ratificata anche dall’Italia, la Capitale dovrebbe avere a disposizione un minimo di 300 alloggi per le vittime di violenza di genere. Concretamente, invece, ne sono presenti appena poche decine: il rischio è che possano essere sempre meno. Soprattutto adesso, che Roma soffre introiti che per forza di cose non arriveranno e le Comunali sono a poche pagine di calendario. Che l’esperienza di Lucha y Siesta abbia già fatto risparmiare all’amministrazione capitolina oltre sei milioni e mezzo di euro non interessa a nessuno. Probabilmente, nemmeno alla giunta che verrà. Quale sarà la sua direzione – se l’attuale amministrazione non dovesse essere riconfermata – è difficile immaginarlo al momento, specialmente dopo l’esperienza Raggi, che in molti hanno definito nemica delle donne per la costante azione di contrasto alle tante realtà del territorio. A tal proposito, torna in mente un’altra battaglia e un’altra vittima, lo stabile di via della Lungara che ha rischiato seriamente di chiudere i battenti.
Era appena febbraio quando per la Casa Internazionale delle Donne fu impedito lo stanziamento di un fondo statale di circa 900mila euro previsto nell’emendamento al Milleproroghe che Giorgia Meloni definì un’oscenità. Anche in quel caso, si trattava di un bene al centro di un’accesa e squallida disputa a danno delle tantissime vittime non solo di violenza, ma anche di bullismo politico. L’immobile è del Comune di Roma, ma da tempo è protagonista di un contenzioso proprio con quest’ultimo. Nell’ambito degli sfratti a 5 Stelle, infatti, ha ricevuto la revoca della convenzione, mobilitando non solo le attiviste, ma l’intera società civile che da tempo manifesta per salvaguardare il centro propulsore di cultura e di consapevolezza. La cittadinanza capitolina teme, infatti, di vedersi privare di un luogo unico che da più di trent’anni opera sul territorio con uno sguardo sempre attento sul mondo. Un laboratorio dove si coniuga la politica di genere, si accolgono donne vittime di violenza e si sostiene chiunque sia in difficoltà. Un centro di accoglienza, di incontro e di valorizzazione dei diritti, dunque, che rischia di chiudere per un debito con Roma Capitale che nulla ha fatto – e continua a fare – per tentare una mediazione.
A denunciarlo da sempre è proprio il direttivo della Casa che ha presentato una proposta di transazione già nel dicembre del 2018, senza mai ricevere udienza. Il debito che si intende riscuotere ammonta, oggi, a circa un milione di euro, una cifra che le attiviste sostengono non riconoscere i crediti che hanno con il Comune. Sottolineano, infatti, che più di 600mila euro sono stati versati nella casse romane, senza contare le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dello stabile un tempo adibito a reclusorio femminile: «Hanno rifiutato di accettare la valutazione della precedente giunta e, se accettassero, il debito scenderebbe a 300mila euro e sarebbe più semplice organizzare una rateizzazione». Una cifra, 300mila euro, che grazie al sostegno dei tanti che riconoscono il ruolo fondamentale della Casa è stata presto raccolta. Da quell’orecchio, però, al Campidoglio continuano a non sentire. Addirittura, dopo mesi di silenzio, a ricevere le attiviste lo scorso luglio non c’erano nemmeno Virginia Raggi e Lorenza Fruci, la delegata alle politiche di genere. Soltanto Valentina Vivarelli, l’Assessore al Patrimonio e alle Politiche Abitative del Comune di Roma. Come si trattasse di morose qualsiasi. E, invece, di morosa c’è soltanto un’amministrazione che dai diritti sembra non trarre profitto.
Il lavoro della Casa Internazionale delle Donne, proprio come quello di Lucha y Siesta, vale molto più di un contenzioso. Molto più della stretta burocrazia. Vale la vita delle tante che decidono di uscire dalla violenza, delle tante che in questi anni nel quartiere tuscolano o in via della Lungara non hanno mai trovato porte chiuse, fisiche o virtuali che fossero. Chiuse, invece, sono sempre state le porte del Campidoglio, anche in questi mesi in cui le richieste di aiuto sono aumentate del 59%. Pandemia, per le donne, ha significato non uscire di casa, continuare a subire, addirittura a morire. Ha significato riduzione del 5% dell’occupazione femminile, quindi minor emancipazione, minor libertà di essere e di esistere, di prendere parte attiva a un sistema paese che vede il profilo dei nuovi poveri somigliare a quello di un’italiana quarantenne con due figli, una mamma sempre più sacrificabile e sacrificata. Perché le donne non contano, contano i bilanci. Aziendali o comunali, anche quando hanno buchi frutto di cattiva gestione. Anche quando si accendono alberi di Natale e luminarie per un valore di circa 140mila euro a fronte degli 80mila annui per un centro antiviolenza. Questione di priorità, forse, o di luci che non devono restare accese.
Il Luchasegnale, però, non si spegne, illumina il buio della politica, i luoghi di ingiustizia, violenza e discriminazione, e le lotte che vi si compiono. Gli ospedali in cui i medici sono obiettori di coscienza. Il Ministero della Salute che piange lacrime di coccodrillo per anni di tagli al personale medico, alle strutture ospedaliere, alla medicina territoriale. Il Ministero dell’Istruzione, che continua a mettere la scuola pubblica in secondo piano. La Regione Lazio e i consultori mai aperti, il Campidoglio divenuto simbolo della dichiarata guerra alle donne. Il Luchasegnale si accende anche e soprattutto per trasformare la rabbia in lotta, per coniugare al futuro vite che, oggi, possono avere soltanto un passato.