Incredibile ma vero: siamo riusciti a vedere il film Roma di Alfonso Cuarón in una sala cinematografica! Non è un commento ironico, ma l’espressione di un reale disagio per quelli che amano vedere il cinema nelle sale cittadine, sempre più rare, con le cose che si complicano quando la produzione e la distribuzione del prodotto fanno parte del circuito dell’entertainment di Netflix e vanno sulla rete telematica globale. In tal senso, la sofferta visione dell’opera del regista messicano – che ha vinto il Leone d’Oro al Festival di Venezia 2018 – ci dà anche la possibilità di riflettere sullo stato delle cose del mondo cinematografico e sul futuro del cinema.
Il film di Cuarón è ambientato nella Città del Messico dei primi anni Settanta del secolo appena trascorso, soprattutto nel quartiere Roma, in un’epoca di grandi speranze di cambiamenti sociali e politici. La vicenda ci viene narrata attraverso lo sguardo e le emozioni della giovane Cleo (interpretata da una straordinaria attrice non professionista: Yalitza Aparicio), di etnia mixteca, che collabora, assieme all’amica d’infanzia Adela, per le pulizie e il governo della casa di una famiglia della media borghesia. La ragazza viene accolta e trattata bene da Sofia (l’attrice Marina de Tavira) e soprattutto dai suoi quattro figli di piccola età, che si affezionano presto alla giovane ragazza e da lei sono ricambiati con lo stesso intenso sentimento. Le gioie e i dolori della storia personale di Cleo si intrecciano con quella della famiglia dove svolge l’attività di lavoro e con le drammatiche vicende di un periodo della storia sociale, dove le proteste studentesche a favore della democrazia saranno soffocate nel massacro del Corpus Christi, quando un gruppo paramilitare reprimerà nel sangue, con più di cento vittime, le rivendicazioni popolari per la libertà e la giustizia.
Dopo i tanti successi cinematografici anche oltre la sua patria di origine, Cuarón è tornato alla sua storia personale e Roma è un film dedicato alle donne tra le quali è nato e cresciuto. Da Y tu mamá también (2001) a uno degli episodi della saga cinematografica incentrata su un famoso personaggio letterario, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004), e al distopico racconto I figli degli uomini (2006) tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice P. D. James, la maggior parte delle prove del regista messicano ha ricevuto negli anni passati molti premi in diverse rassegne. Fino alla consacrazione definitiva del suo talento con l’assegnazione degli Oscar nel 2013 – ben sette statuette, tra le quali i premi per la regia, la fotografia e il montaggio – per il film Gravity, interpretato dalle star George Clooney e Sandra Bullock e campione di incassi in tutto il mondo.
A questo punto della sua carriera, Cuarón ha sentito la necessità di tornare agli spazi della sua terra natia e ai tempi della sua infanzia e, in effetti, alle origini della sua formazione sentimentale e artistica. Portando con sé, comunque, dopo tanti anni, una notevole quantità di esperienze tecnico-lavorative e una capacità produttiva e organizzativa che gli ha permesso il controllo delle diverse fasi della narrazione cinematografica. La Netflix, un’impresa nata alla fine degli anni Novanta in California per la vendita e il noleggio dei dvd che poi si è strutturata, alla fine del primo decennio di questo secolo, nei servizi di streaming online on demand, ha assecondato la sua scelta artistica e produttiva, perché dal 2013 ha accresciuto la propria attività di produzione televisiva e cinematografica e in pochi anni ha realizzato e distribuito suoi contenuti di intrattenimento, con centinaia di produzioni tra serie tv e film originali. Alla fine di quest’anno, l’azienda californiana possiede un pacchetto di più di centoventi milioni di abbonati in tutto il pianeta.
Il dibattito è acceso, come era ovvio aspettarsi, tra apocalittici e integrati dell’arte cinematografica, vale a dire tra coloro che contestano la stessa partecipazione in concorso ai festival dei prodotti Netflix e gli osservatori che ritengono che la fonte e il “veicolo” della produzione nel campo della Settima Arte debbano adeguarsi all’evoluzione dei sistemi tecnologici e produttivi, ma soprattutto al mercato che detta, da sempre, le regole del gioco anche nel campo artistico, della sua espressione e della diffusione attraverso il sistema affaristico e finanziario più ampio di cui fa parte. D’altronde, la legislazione in materia di priorità tra uscita della confezione filmica – prima nelle sale, per poche giornate, e poi sulla rete – è ancora non ben definita e la confusione regna sovrana. Nei cinema italiani, per esempio, ci sono state diverse e brevi finestre di programmazione del film di Cuarón per poi passare alla piattaforma Netflix.
Tornando a Roma, siamo rimasti incantati davanti al risultato etico ed estetico di quest’opera, girata in un bianco e nero curato dallo stesso regista, che riesce a riportare il cinema ad alta definizione tecnologica alle origini vitali delle reti affettive dove nasce la necessità dell’espressione artistica. Basta citare una delle ultime scene, dove la giovane Cleo, che proviene dal mondo rurale messicano, affronta l’elemento naturale dal quale nasciamo tutti e, avanzando tra le onde sempre più minacciose del mare, va a riprendere i bambini in pericolo. La piccola serva si trasforma in Grande Madre e tutti si abbracciano sulla spiaggia – unico corpo affettivo – prima di tornare alla vita quotidiana di città, dove le divisioni personali, etniche e sociali riprenderanno il centro della scena e il dio denaro che tutto ordina si impadronirà di nuovo delle loro esistenze.