Lo scopo dell’arte non consiste … nel contagiare con le idee, nel servire da esempio. La sua finalità consiste nel preparare l’uomo alla morte, nell’arare e nel rendere tenera la sua anima in modo che sia capace di rivolgersi al bene. – Andrej Tarkovskij
Per caso mi sono imbattuta nella poesia di Roberta Dapunt e ho sentito la forza visionaria e radicale della sua scelta di vita. Quel bisogno di rallentare e di fermarsi a guardare fuori dalla finestra un panorama non cittadino ma naturale, come antidoto, un vaccino quotidiano al veleno che intossica ogni giorno il nostro sangue. Per fare pace con noi stessi e con il mondo, bisogna avere il coraggio di vivere fino in fondo in un modo divergente, assolutamente non aggressivo. Questa liturgia del quotidiano è la base filosofica della poetessa landina.
Roberta Dapunt ha una voce poetica limpida e originale. Ricordiamo i tre titoli pubblicati per Einaudi: La terra più del paradiso, 2008; Le beatitudini della malattia, 2013; Sincope, 2018. L’autrice nasce in Val Badia, terra silenziosa e semplice che spinge verso una vita fatta di gesti arcaici, tra borghi di pietra e montagne innevate, luoghi abitati da una civiltà contadina che custodisce con cura e rispetto la sua tradizione, che rischia in questi tempi di scomparire. La poesia di Roberta Dapunt parte da questo vivere reale e autentico, con una densità particolare di sguardi e di ascolto, alla ricerca di sintonie ancestrali.
È cammino casto il ritorno dal Fanes / zoccolo che pesta lento ogni fine di estate./ E così siamo soli nell’ampio paesaggio/ ci facciamo villani dai riservati silenzi/ accodati alle mucche per rispetto/verso il loro sentiero saputo./ Io guardo commossa e sono fortunata persona/ma se solo potesse l’anima mia stare nel tondo ventre della vacca/ come a settembre un vitello al ritorno./ Con la quiete rivolta in avanti/ senza sapere per dove ma sicura di un approdo/ cullata e nel caldo, verso un fieno tagliato di nuovo/ ogni qualvolta finisce l’erba.
Il linguaggio poetico racconta l’umiltà delle stanze e dei pascoli, e si pone come gesto sovversivo perché induce a rallentare il ritmo del respiro, aiuta a decentrarsi dalla fame egoistica di protagonismo narciso dei nostri tempi. Diventa antidoto contro ogni desiderio superfluo di visibilità mediatica. Descrive il piccolo, il minimale, e allude simbolicamente alla grandezza del cosmo. La neve e la pioggia, il focolare e la stalla, diventano allegorie di questo straniamento spirituale. C’è in ogni pagina questo interrogarsi umile sul mistero della fede.
Divina solitudine sulla mia parete, / cederei la penna per un giorno di fede.
Gli animali, le stalle, i prati estivi, gli orti e i giardini selvatici, le atmosfere invernali, i fiori falciati, il ronzio degli insetti, il cammino nei sentieri montani, l’odore del fieno, il buio della sera, sono tutti oggetto di meditazione profonda e di contemplazione, creando un diario ascetico e originale.
Tutto è qui nella riservatezza rurale che ripeto / mattina e sera, spesso unico sentiero / che pesto come a passeggio verso casa.
Il maso di Ciaminades, in alta Val Badia, è la sua vita, feconda il suo laboratorio di poesia, diventa luogo di esilio dal richiamo del mondo. La poesia ha bisogno di ritornare al suo silenzio, all’eremo montano, nella convinzione che la frenesia metropolitana sia fonte tossica di malattie dell’anima e solo in quei luoghi ameni è possibile ripulirsi e purificarsi.
Curo i prati come il pavimento della mia casa/ guardo l’erba come il tappeto sul quale/ allignano i figli e un tempo contento. / Non vi è obbligo di appartenenza. / Ogni filo d’erba è una spettanza/ il diritto per l’umiltà di un altro/ che l’ha preceduto e che io ho falciato/ raccolto e scelto per necessità e dottrina. Pulire i prati è levare loro i sassi e contarli/ come un atto di compassione.
La vita rurale e familiare di Roberta Dapunt protegge un ideale ben preciso: il valore tradizionale della millenaria cultura ladina, il rispetto del territorio e l’identità della vocazione agricola della regione. Rigore, disciplina e tradizione confluiscono in un rituale religioso che unisce poesia e silenzio, creando un ritmo poetico orante, una sorta di preghiera in versi che affascina e radica, riprendendo così la memoria storica, e illumina di un altro chiarore.
Ciaminades, nel cuore dell’Alta Badia, diventa la heimat di Roberta Dapunt, la sua patria letteraria. Il pensiero, la preghiera e la poesia si fondono in ogni verso, si trasformano alchemicamente in un corpo unico, con la percezione profonda di un sentimento di appartenenza lirica e toccante con il luogo. Non si tratta di descrizioni bucoliche superficiali ma di un dialogo incessante con la natura che si ama e si ascolta. Ogni elemento vegetale, animale e minerale ha una voce, è sussidiario di una allegoria esistenziale in cui fluire con libertà.
Nostalgia e malinconia avviluppano le parole per la sofferenza di coloro che non ci sono più, per la malattia che ha sconvolto la mente della madre, per la sensazione di una fragilità che pervade quelle cose amatissime e così precarie. La bellezza di Ciaminades conosce la dolcezza di ciò che rischia di essere perduto. Rappresenta un microcosmo che necessita di una costante protezione, di una vigilanza continua per resistere alle contaminazioni della tempesta della modernità.
Il silenzio voluminoso delle montagne, i suoni della campagna rurale, il lavoro dei campi sono segni di una vita primordiale, che educa all’essenziale, alla semplicità. La sua lingua unisce forza e umiltà, trasformandosi in uno stile universale. Dice in un’intervista: «Un lavoro lento, faticoso. Scrivo e riscrivo “ad alta voce”, recito una litania in divenire, riempio quaderno su quaderno, cerco la parola giusta, fino a raggiungere il risultato desiderato».
Considera questa faccia tu che mi stai davanti, valutami.
Percorri questo luogo, presentami i tuoi strumenti
e misura la mia espressione.
Prendi la larghezza, unisci la sua lunghezza alla profondità
dei miei occhi, del loro sguardo fin dove finisce.
Misurami la bocca, aprimi le labbra e prova a guardare dentro,
esplorami. Nelle profondità della parola e della mia lingua,
in quella che tu non potrai capire.
Disegnami una carta addosso, fai di me la tua topografia
e calcami, giudicami ogni volta che pensi sia giusto farlo. Riproponimi.
Misurami l’udito, parlagli, digli cosa pensi, chi io sia.
Consacra per questo attimo il tuo giudizio alla mia pelle,
poiché vedi? Io ti do tutto ciò che sono, la mia nudità in questo volto.
Unisciti ai miei capelli, porgimi la tua vanità e intrecciala al mio essere,
questa mente che tu non vedi, questo pensiero che tu non senti,
la mia lingua che tu non ascolti. Ciò che io vedo e che tu non guardi,
e così il mio ascolto che tu non odi.
Del giorno e mentre dormo, sarai tu la mia consapevolezza,
perché tu mi venga incontro, che tu mi ami, che tu mi baci,
che tu mi guardi. Che tu mi guardi.
Uno dei temi trattati nella sua silloge Le beatitudini della malattia è la demenza che ha colpito sua madre, causata dalla malattia di Alzheimer. Il continuo dialogo con Uma, che in ladino significa madre, diventa l’allegoria del mistero dell’altro/Altro, inconoscibile e inafferrabile.
Va a rilento il mezzogiorno, privo di colonna sonora /appena udibile è il nostro pranzo. / Stiamo entrambe in ascolto del nostro silenzio, / che da lì, solamente dal tuo dove lontano mi stai accanto. / Di fronte io, che non guardo./ Accolgo così il tuo stare seduta che non trova espressione, / è la tua unica offerta per me. E io confesso/ senza parole e mi sembra di urlare, / che qui in questo luogo/ ho solo il corpo a credere alla vita/ poiché il resto non è che un’erba ruvida da falciare. /…
Lo sconforto e la tristezza per la condizione inferma della madre diventano anticamera struggente del mistero della vita e della morte, preparazione lenta e profonda a lasciare andare l’altro verso il suo destino, mentre la malattia rende impossibile il dialogo intimo di una volta e procura il dolore disperato del silenzio. Allora il mistero dell’altro funge da luogo immaginario di ciò che è sacro e inafferrabile.
La cura della madre malata diventa uno speciale percorso di conoscenza dell’anima, un cammino spirituale che ci avvicina al senso delle beatitudini. La poesia di Roberta Dapunt, così scarna ed essenziale nella sua curata versificazione, è intrecciata a questa significazione mistica che offre a ogni elemento reale un simbolismo interiore, una traccia interrogativa di quella viandanza lirica che ci unisce e ci disorienta.