Per la Ministra Marta Cartabia, che nelle prossime settimane dovrà tentare di concludere l’iter riguardante la riforma della giustizia, è arrivato il momento del banco di prova tanto atteso. Si tratta di modifiche all’impianto giurisdizionale e processuale nazionale rinviate da tempo e ora necessarie per ottenere i finanziamenti del Recovery Fund.
L’Italia, infatti, ha assunto un impegno con le istituzioni europee ai fini del riconoscimento dei finanziamenti promessi, dovendo però apportare modifiche alle discipline riguardanti il processo civile e penale, oltre che alla configurazione del Consiglio Superiore della Magistratura, per garantire un esercizio della funzione giurisdizionale completamente scevro da influenze esterne. L’intenzione è quella di delegare il governo per l’emanazione di tre leggi. A tal fine, sono state nominate delle commissioni preposte che avranno come base di partenza i disegni di legge presentati dal Ministro Bonafede durante la scorsa legislatura.
Se per le modifiche riguardanti il processo civile – tendenti soprattutto a una diminuzione dei tempi processuali e all’incentivazione di metodi alternativi di risoluzione delle controversie – non sembrano esserci grandi problemi, basta spostarsi in ambito penale per trovarsi di fronte tutte le difficoltà. Infatti, non solo le promesse più ambiziose fatte dall’Italia riguardano questo settore ma, soprattutto, in esso si concentra tutta la distanza delle forze che compongono il governo, che infatti hanno presentato emendamenti che si pongono in direzioni completamente opposte.
L’obiettivo è ridurre di almeno un quarto i tempi processuali in cinque anni: la media, infatti, è di gran lunga superiore a quella europea e comporta reiterate violazioni di principi costituzionali e comunitari. Il mancato rispetto della ragionevole durata del processo mortifica la presunzione di innocenza e rappresenta inoltre un sistema processuale poco efficiente e ragionevole: arrivare a comminare una pena dopo molti anni dalla commissione del fatto significa rischiare di intaccare percorsi di risocializzazione che spesso sono stati avviati in maniera autonoma all’esterno, magari con la ricerca di un lavoro.
Dunque, uno dei problemi più rilevanti è proprio quello della prescrizione. Trattasi di un istituto attraverso cui lo Stato rinuncia a perseguire taluni reati quando – dato il trascorrere di molto tempo – ciò non comporta più alcun vantaggio per la collettività né per il reo. Come abbiamo già osservato, infatti, quando la sanzione penale perde la sua ragione giustificatrice diventa mero esercizio di potere coercitivo che nulla ha a che vedere con il fine rieducativo che la Costituzione collega alla pena. Un processo svolto ad anni di distanza dal fatto, inoltre, moltiplica le possibilità di incorrere in errori giudiziari, non potendosi servire di indagini e informazioni attuali. Eppure, di recente, le riforme si sono dirette in direzione completamente opposta, allungando – e interrompendo – a dismisura i tempi di prescrizione a discapito della presunzione di innocenza e rendendo gli imputati tali anche per decine di anni.
La conferma ci è data dall’ultimo disegno di legge presentato da Bonafede – la legge Spazzacorrotti – con la quale si prevedeva addirittura il blocco assoluto del decorrere della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, fosse essa di condanna o di assoluzione. È chiaro che ciò non solo non incentivi la celerità dei processi, ma soprattutto non risponda ad alcuna logica di efficienza e ragionevolezza, in netto contrasto con quanto garantito in sede europea. Sarà molto difficile, comunque, trovare una soluzione: se la commissione ministeriale nominata da Cartabia ha fatto proposte che tendono a ridurre i tempi processuali, con la previsione anche di ipotesi di improcedibilità per il decorso di determinati periodi senza alcuna sentenza, dall’altro lato alcune forze di governo premono per il ritorno alla legge Spazzacorrotti, altre ancora chiedono addirittura di irrigidirla ulteriormente nella ben nota logica del gettiamo le chiavi.
L’obiettivo della riduzione dei tempi processuali e giudiziari chiede, infatti, di sacrificare le istanze meramente punitive di cui invece sono appassionati rappresentanti molti degli esponenti di governo. Quindi, come avevamo già avuto modo di sottolineare, una personalità ben predisposta e anche con lodevoli intenzioni, come quella della Ministra Cartabia, non basterà a condurci verso un reale slancio di civiltà poiché inserita in un contesto governativo ben lontano da tali principi. A ciò si aggiunga la possibilità paventata qualche mese fa di utilizzare parte dei finanziamenti per la costruzione di nuovi istituti di pena, decidendo così di ingolfare ancora di più il sistema penale, che invece chiede un rinnovamento fin dalla sua base e dalla concezione stessa di condanna.
La pressione sulla Ministra Cartabia rischia di aumentare ancora di più in vista della raccolta firme che Matteo Salvini sta portando avanti per indire un referendum sulla riforma della Giustizia insieme al partito dei Radicali, che probabilmente avrà a oggetto proprio la connessione tra politica e magistratura. Ciò che è certo è che per la Neoministra è giunto un momento decisivo, che va ben al di là del riconoscimento dei finanziamenti europei. È una prova di civiltà per il nostro Paese in cui l’ex Giudice della Corte Costituzionale potrà dimostrare – si spera – la propria distanza dal suo predecessore Bonafede, portatore di gradi (in)giustizie.